In questi mesi abbiamo sentito molto parlare di “lockdown”, un termine anglofono che è servito per la nostra biosicurezza, la nostra salute, ma che al contempo ha legittimato forme di militarizzazione della crisi, di controllo e sorveglianza: il cosiddetto “stato d’eccezione” per dirla con Giorgio Agamben.

Questa, almeno in Occidente, sembra essere rimasta l’unica soluzione possibile, dando adito a ciò che in molti hanno definito “covidismo”, una isteria biopolitica per dirla con Michel Foucault, permettendo il “moralismo targato Covid-19”, la creazione di struttura moralistiche tra il “bravo cittadino” e il “cattivo cittadino”, la colpevolizzazione di chi era, come tutti, vittima di questa crisi sanitaria. Questo con il fine di impedire la ricerca delle responsabilità politiche di questa crisi.

Oltre al fatto che in Italia non c’è mai stato un vero e proprio lockdown, in quanto la maggior parte dei luoghi di lavoro sono rimasti sempre aperti, la misura del “lockdown totale” non è stata usata in tutto il mondo come soluzione. Il Venezuela bolivariano, per esempio, al posto delle chiusure prolungate, ha messo in atto la metodologia 7+7, con sette giorni di chiusura ferrea e sette giorni di chiusura blanda, rafforzando i CLAP, la tracciabilità dei contagi e i tamponi casa-per-casa, aggiudicandosi il podio tra i Paesi che al meglio hanno risposto alla crisi sanitaria.

A proporre un’altra alternativa è anche il Presidente socialista della Bolivia Luis Arce che ritiene che «affrontare una crisi non significa bloccare i boliviani nelle loro case in una rigida quarantena, resistere non significa che i militari e la polizia invece di difendere la popolazione, la debbano difendere dal coronavirus» – le sue parole riportate dall’agenzia ABI.

Secondo Arce la campagna massiva di test iniziata nel paese andino, permetterà alla Bolivia di superare gli effetti nefasti del blocco totale decretato lo scorso anno dal governo golpista, non risolvendo de facto i danni della pandemia.

«Vogliamo identificare il maggior numero di persone che hanno il coronavirus, ma non lasciarle morire, vogliamo che attraverso i nostri governi subnazionali possano essere poste in isolamento, possiamo curarle, possiamo risolvere il loro problema prima che accada il peggio», ha spiegato Arce offrendo una soluzione molto razionale al problema che può permettere alla Bolivia di ripartire in piena sicurezza.

Arce ha poi aggiunto che i test di massa aiutano a fornire una risposta rapida ed efficace contro il coronavirus con il supporto dei servizi sanitari dipartimentali e municipali, degli operatori sanitari e della popolazione stessa.

«Alla fine di questo mese è previsto l’arrivo un primo lotto di vaccini che inoculeremo ai nostri fratelli medici (…), alle nostre infermiere, al personale che fa le pulizie e noi ci preoccuperemo per tutti», ha aggiunto il presidente.

In due mesi di gestione, l’attuale governo ha garantito la fornitura di almeno 2,2 milioni di test diagnostici, secondo fonti ufficiali. L’obiettivo è immunizzare la maggioranza della popolazione vaccinabile, di età superiore ai 18 anni, volontariamente e progressivamente.

Il governo golpista di destra capeggiato da Jeanine Áñez aveva fatto entrare la Bolivia nelle trattative per l’acquisto di vaccini con tre o quattro mesi di svantaggio rispetto ad altri Paesi. «Vogliamo rilevare per curare e isolare, e non raggiungere le condizioni estreme che il governo golpista ci ha fatto vivere, questa è la strategia» – ha affermato Arce.

Dalla Bolivia arriva un chiaro esempio di strategia diversa: affrontare il virus, ma al contempo conviverci permettendo alle persone di ritornare e di ritornare alle loro vite.

 

Fonte del discorso di Luis Arce:

https://twitter.com/i/status/1350484270364684289