Da più di vent’anni il sistema elettorale brasiliano si svolge attraverso l’utilizzo di urne elettroniche in cui al digitare il numero del candidato, ne appare sullo schermo la foto e il nome. L’elettore ha la possibilità di premere tre tasti: voto bianco; correggi; conferma. Nel caso si volesse annullare il voto, basta digitare un numero aleatorio e confermare. Solo al momento dello scrutinio, attraverso un comando speciale del presidente del seggio, in presenza degli scrutatori e delle commissioni di controllo, l’urna elettronica rivela i dati che vengono prontamente inviati alla sede centrale del Tribunale Elettorale. Per evitare frodi o attacchi esterni, in nessun momento l’urna e la sezione sono collegate via internet. Il voto elettronico espresso dal cittadino rimane quindi nel segreto dell’urna fino alla sua disattivazione. I problemi che normalmente si possono verificare vengono immediatamente risolti, o dalle cedole elettorali tradizionali, o dalla sostituzione dell’apparecchio. In tanti anni di uso, il sistema è stato approvato non solo dalla popolazione ma anche da organi internazionali di controllo che nel funzionamento complessivo del processo elettorale non hanno mai riscontrato né brogli né irregolarità.
Garantire l’efficienza e la sicurezza del voto, soprattutto nelle zone rurali più lontane, o nelle periferie dominate dalle milizie e dal voto di scambio, fu un grande progresso democratico capace di creare e trovare consenso tra tutte le forze politiche. Nel 2014 però qualcosa si spezzò. Aécio Neves, candidato alla presidenza della repubblica, non accettò il risultato delle urne. Mise in dubbio la vittoria di Dilma Rousseff, e, nonostante i controlli svolti, continuò a dichiarare illegittima la sua vittoria. Nel primo discorso in senato, Aécio Neves promise: “faremo ostruzione selvaggia finché metteremo il paese in ginocchio e la presidente Dilma Rousseff sarà incapace di governare. A questo punto potremo costruire il paese che vogliamo“. Cominciò il lungo calvario che portò alla rottura dell’ordine democratico, il colpo di stato bianco che vide la presidente destituita e l’avvento di Bolsonaro. Se è vero che i governi autoritari nascono nei momenti di crisi democratica, fu proprio quando non si accettò il risultato delle urne e si pose in dubbio la sicurezza dell’intero sistema, che il germe del discredito sul nostro processo elettorale venne piantato proprio da coloro che, per tanti anni, lo avevano usato per poter occupare le più alte cariche dello stato.
Nei giorni precedenti alla sua elezione, Bolsonaro già dichiarava di non accettare un risultato che non fosse la sua vittoria. Una volta eletto continuò ad insistere sul fatto che se non ci fossero stati brogli, avrebbe potuto vincere senza la necessità del ballottaggio. Pochi mesi fa, in previsione della sconfitta dei suoi alleati, ha tentato di sabotare le elezioni municipali, prima attraverso una sordida campagna di delegittimazione del voto elettronico, poi con vere e proprie accuse di manipolazione dei voti da parte di hackers al servizio del comunismo internazionale.
Oggi, mentre i leaders del mondo deplorano i fatti di Washington e, soprattutto, le parole di Trump, Bolsonaro dice: tutti hanno visto cosa succede quando si vogliono rubare i voti, se nel 2022, per le prossime elezioni presidenziali, continueremo ad usare il voto elettronico, qui sarà molto peggio che negli Stati Uniti. La stampa adesso dirà che io non ho prove per accusare il nostro sistema elettorale. Alle affermazioni di questa stampa canaglia io non rispondo più”.
Ripeto: “Se nel 2022… qui sarà molto peggio che negli Stati Uniti”. Praticamente, con quasi due anni di anticipo, minaccia di mettere in atto un colpo di stato, questa volta per via cruenta.
Se credessi come lui alla teoria della cospirazione, nella presenza di suo figlio alla Casa Bianca, in compagnia di Trump, proprio il giorno prima dei fattacci, vedrei un chiaro segnale. Una precisazione: il figlio di Bolsonaro non è un figlio qualunque, ma un deputato federale nonché presidente della Commissione Esteri della Camera e a suo tempo indicato dal padre per assumere il ruolo di ambasciatore negli USA. Tempo fa espresse la sua intenzione di arrestare i giudici della Corte Suprema, “basterebbero un caporale e un soldato, nessuno verrebbe in loro aiuto“. Non è un figlio qualunque. Era con Trump alla Casa Bianca il giorno prima dell’assalto ai forni. Ma io alla teoria della cospirazione non ci credo.
La narrativa golpista segue parametri e logiche comuni dappertutto. Se Trump contesta il voto postale, Bolsonaro mette in dubbio il sistema elettorale. Se Trump convoca i barbari, Bolsonaro anticipa la minaccia di insurrezione. Il ricatto comincia nel lontano 2015, per creare panico sociale e consenso di massa, i golpisti dicevano: se non si destituisce la presidente Dilma Rousseff il Brasile affonda. Nel 2016, continuavano: se non si approva la legge che congela la spesa pubblica per 20 anni, il Brasile affonda. Nel 2017, proseguivano: se non si approva la “riforma del lavoro” (ossia l’eliminazione di ogni tutela dei lavoratori) il Brasile affonda. Nel 2018, con l’appoggio di quella stessa grande stampa, oggi definita dal presidente come “canaglia”: se Bolsonaro non sarà eletto presidente il Brasile affonda. Nel 2019 ricattavano: se non si approva la riforma pensionistica (privatizzando la previdenza sociale) il Brasile affonda. Nel 2020, vomitavano: se non sospendiamo l’ausilio di emergenza dato alle famiglie in difficoltà per la pandemia, il Brasile affonda. E finalmente la frase emblematica detta proprio da Bolsonaro nei primi giorni del 2021: il Brasile è ormai fallito e io non riesco a fare niente perché né il parlamento né la corte Suprema mi lasciano governare.
No. Niente teoria della cospirazione: è sempre stato tutto chiarissimo, le loro intenzioni le hanno sempre annunciate, e in seguito, realizzate pienamente. Nessuno cospira contro la democrazia nel segreto di riunioni clandestine, nessuno si scomoda in accordi sottobanco, tutto è alla luce del sole: dai legami presidenziali con le milizie del narcotraffico, alle intenzioni golpiste. Loro sì. Quello che vogliono fare lo hanno sempre detto. E lo fanno.