La morte si rispetta e forse per questo i profili social della nostra parte di mondo, altrimenti ben più vivaci, sono rimasti piuttosto silenti di fronte alla notizia della scomparsa di Marco Formentini, Sindaco di Milano dal 1993 al 1997. Ma oggi, leggendo tutta una serie di omaggi e ricostruzioni provenienti da voci autorevoli del centrosinistra milanese, che ci presentano un Formentini Sindaco in una assai improbabile veste progressista, cadono francamente le braccia ed è senz’altro il caso di prendere parola.
Beninteso, non siamo degli ingenui, conosciamo i tatticismi elettorali e, quindi, non stupisce, né scandalizza che in vista delle imminenti elezioni comunali si cerchi di lisciare il pelo agli scontenti del leghismo sovranista e nazionalista di Salvini. Ma quando lo si fa così, con un po’ troppa disinvoltura e, soprattutto, espellendo dalla memoria interi pezzi di storia cittadina, allora più che lisciare il pelo ad altri, si rischia di svelare le proprie debolezze e incertezze.
Non c’è nulla di inesatto nelle parole del Sindaco Sala o in quelle dell’Anpi provinciale di Milano. È vero che l’allora sindaco ha proseguito nella costruzione della linea 3 della metropolitana ed è vero che Formentini nella sua adolescenza stava con i partigiani, ma se si omette tutto il resto, cioè tutto quello che importa nella valutazione di un’esperienza politica e istituzionale, alla fine non si racconta un pezzo di storia di Milano, mi si inventa una storia mai accaduta.
Non è mai esistito un leghismo buono delle origini, da contrapporre a quello cattivo di oggi. Erano esistiti soltanto la sottovalutazione, l’inseguimento e gli opportunismi del momento. Correva l’anno 1995 quando Massimo D’Alema pronunciò il suo famoso “la Lega è una costola della sinistra”. Vogliamo riesumare quella storiella?
Ma già allora c’era anche chi colse la natura del fenomeno leghista, che si stava formando negli anni di crisi finale del longevo regime Dc-Psi e che sarebbe poi dilagato con Tangentopoli. Risalgono, infatti, agli anni 1990-1991 i libri I nuovi razzisti e Il tarlo delle leghe di Vittorio Moioli, allora responsabile della formazione del Pci lombardo, che rappresentano alcune delle prime e più lungimiranti analisi critiche del leghismo.
Per Moioli la Lega era un partito di “matrice neo-conservatrice” in forza a quattro particolari connotazioni: “il suo autonomismo separatista, il neo-liberismo in economia, le sue manie xenofobe, l’autoritarismo politico che la contraddistingue come organizzazione” (in Il tarlo delle leghe).
Gli anni del Sindaco Formentini non erano una strana parentesi posta tra Mani Pulite e l’avvento della creatura politica di Berlusconi, ma erano più banalmente i primi anni del ciclo quasi ventennale di amministrazioni di destra della città, che sarebbe terminato soltanto con la sconfitta di Moratti e la vittoria di Pisapia nel 2011.
Marco Formentini era certamente di indole più pacata di Bossi, ma aveva scelto e condiviso il progetto della Lega. La sua campagna elettorale era costellata di temi leghisti, dall’incitamento alla xenofobia (allora c’erano gli albanesi a fare da bersaglio) fino al cavallo di battaglia dello sgombero del Leoncavallo.
Già, il Leoncavallo. Anche quella vicenda ieri è stata ridotta a particolare insignificante oppure estromessa del tutto dal discorso. Eppure lo sgombero del Leoncavallo era una degli argomenti principali della campagna elettorale di Formentini e fu, infine, eseguito durante il suo mandato. E la sua amministrazione non dimenticò nemmeno gli altri temi cari alla Lega.
No, Marco Formentini non era “uomo politico di cui Milano può essere orgogliosa”, non era uno di noi. Era un avversario, che aveva inaugurato il ventennio di egemonia politica della destra in città, aperto le porte di Palazzo Marino al discorso xenofobo e avviato il conflitto permanente contro i movimenti con lo sgombero del Leoncavallo. C’è continuità, non discontinuità e mutilare la memoria di quel tempo, per presentare una versione light al servizio della contingenza, è un segnale davvero pessimo.