Dopo tre giorni di agonia, il povero Emerson muore soffocato, seduto su una seggiola dell’infermeria di un grande ospedale di Manaus, dove non i sono più letti disponibili, dove sono finite le scorte di ossigeno, dove nei reparti di terapia intensiva i medici devono decidere chi far vivere e chi lasciar morire. I giornali pubblicano la fotografia. Raimundo, infermiere, è stato con lui fino alla fine.
Scrivo senza sapere cosa è successo.
Scrivo dopo aver letto un titolo e guardato la foto,
Scrivo senza poter neanche immaginare la paura di Emerson, il suo abbandono totale in un mondo incomprensibile dove il dolore domina assoluto.
Scrivo e mi sento avvolto dell’abbraccio-fratello delle braccia di Raimondo, un vero abbraccio-mondo, per annullare la paura, per sentire e provare insieme l’eternità di un istante.
L’aria spinta a forza da macchine e vapori, incontra le porte dei polmoni chiuse.
Emerson se annida tra le braccia aperte della presenza muta di un rifugio cosmico.
Raimondo abbraccia Emerson, e Raimondo si fa mondo;
Emerson nel mondo costruito per lui da Raimondo.
Mentre là fuori il mondo crolla, mentre l’aria si spegne evaporando per sempre, i miei occhi piangono nell’abbraccio di Emerson e Raimondo: immagine religiosa infinitamente umana, l’abbraccio è quello che ci resta, rifugio amico, preghiera della vita nell’intimità di Dio.
Emerson e Raimundo, eroi del Brasile.