Rinchiuso. Perché le prigioni non servono a nessuno di Thomas Galli. L’ex direttore di un penitenziario tedesco propone di smantellare le prigioni e delinea alternative al sistema penale.
Alla domanda di una giornalista su cosa farebbe l’avvocato e allora direttore penitenziario Thomas Galli con i detenuti della sua prigione, se potesse fare a modo suo, risponde: “Li libererei tutti”. Ma come immagina esattamente Galli una società senza prigioni? Sarebbe giustificabile? Che impatto avrebbe sulla sicurezza della società? E i / le criminali non devono pagare per le loro azioni?
Galli affronta queste domande nelle 312 pagine del suo libro in cui riferisce delle sue esperienze personali come direttore di una prigione e di come è arrivato a dubitare, iniziando a mettere in discussione il sistema penale. La sua competenza è sostenuta da fatti, cifre e risultati scientifici sul sistema penale. La giustizia di classe dello Stato è particolarmente impressionante: circa il 90% dei quasi 51.000 prigionieri in Germania (a marzo 2018) stanno scontando pene inferiori ai cinque anni. La lista dei reati per i quali è prevista una pena detentiva è capeggiata da reati contro la proprietà, cioè furto, appropriazione indebita, malversazione e frode (40-50%).
Anche reati minori come il furto nei negozi o la guida senza patente possono portare alla detenzione se il condannato non può pagare la multa imposta. Ogni anno, circa 50.000 persone vengono condannate a una cosiddetta pena detentiva alternativa – quasi una persona su tre condannata a una multa riceve il sussidio statale per chi è senza lavoro da tanto tempo. Da un lato, la pena detentiva sostitutiva spinge le persone colpite ancora più ai margini sociali, e dall’altro questa misura causa un multiplo del ‘danno’ originale: Galli calcola che i costi complessivi per le pene detentive sostitutive ammontano in Germania a circa 611.000 euro al giorno!
La necessità della pena
Allo stesso tempo, si negoziano accordi sulla vendita di armi nei parlamenti, i top manager licenziano migliaia di dipendenti per aumentare i loro profitti, e i banchieri si arricchiscono a spese dei contribuenti senza alcuna minaccia di punizione. Galli scrive: “Queste persone possono legalmente causare dei danni di gran lunga maggiori rispetto a quelli commessi da molti detenuti. Gli atteggiamenti e le azioni antisociali si manifestano nelle classi ‘più alte’ semplicemente in forme meno vistose”. Quando si legge il libro, si dovrebbero tenere a mente queste connessioni; dopo tutto, è sempre una questione di chi viene punito, quali reati vengono puniti in primo luogo, e quali interessi vengono protetti in ultima analisi con il sistema di giustizia attuale.
Il bisogno di punizione è vecchio come l’umanità stessa: nel corso dei secoli, tuttavia, si è evoluto da una vendetta arcaica basata sul motto “occhio per occhio, dente per dente” a un’attuazione meno cruenta. Il motivo di base rimane però lo stesso: chi causa sofferenza agli altri deve essere punito. La severità della punizione dovrebbe essere misurata dalla portata del danno fatto, al fine di ristabilire la giustizia attraverso il castigo.
Nella nostra società abbiamo delegato la punizione allo Stato. Tuttavia, nel suo nucleo, si tratta ancora di infliggere un male ai colpevoli. Questo autorizza lo Stato a punire le persone privandole della loro libertà, anche se questo viene volentieri mascherato: “La risocializzazione è il nuovo e bel vestito che viene dato al sistema penale al posto del vecchio mantello grigio della punizione”, scrive Galli. Oggi si preferisce anche parlare di carceri e detenuti piuttosto che di prigioni e prigionieri, o di stanze di detenzione piuttosto che di celle, ma la pratica rimane la stessa.
Risocializzazione attraverso l’incarcerazione?
Galli chiarisce che crede che sia praticamente impossibile ottenere una vera risocializzazione in un’istituzione totalitaria come il carcere. Le ragioni sono molteplici: isolamento, lontananza dalla vita, interdizione legale dei detenuti, subculture, violenza e uso di droghe sono solo alcune delle parole d’ordine che caratterizzano la vita quotidiana in prigione. Allo stesso tempo, l’attuale sistema penale viene difficilmente messo in discussione.
L’autore afferma: “Nessuna scuola potrebbe esistere a lungo termine se non verificasse quanto i suoi studenti hanno effettivamente imparato. Qualsiasi ospedale che non è in grado di curare con successo le persone verrebbe chiuso […]. Nel sistema penale è ben diverso: qui il controllo del successo sembra consistere principalmente nel raccogliere e comunicare al mondo esterno meno dati compromettenti possibili per poter continuare a dare alla vendetta punitiva l’apparenza di una risocializzazione ragionevole e illuminata”. (p. 46.)
Il tasso di recidiva parla da solo: la stragrande maggioranza dei prigionieri rilasciati commette nuovi reati.
Una società senza prigioni
Galli chiede di espandere i servizi di prevenzione e di abbandonare la “punizione a ritroso della colpa” (p. 213) per passare a una riparazione attiva e alla responsabilizzazione dei colpevoli. Dovrebbe riguardare i bisogni delle vittime e una reale riabilitazione dei colpevoli. Questo richiede nuove strutture: assistenti sociali, psicologi, avvocati, criminologi e così via dovrebbero essere maggiormente coinvolti, introducendo nuove forme di privazione della libertà, decentralizzate e più aperte. Galli parla qui, per esempio, di arresti domiciliari controllati elettronicamente o di un’attuazione in forma più libera, per esempio in gruppi residenziali.
Una riforma del diritto penale dovrebbe inoltre depenalizzare certi reati di droga e reati minori. Solo i criminali più pericolosi – tra i quali Galli include persone “le cui azioni li hanno portati lontano dal comportamento umano” (p. 263) – dovrebbero essere privati della loro libertà a vita al fine di proteggere la popolazione, preservando la dignità umana. Galli propone qui dei complessi residenziali sicuri, all’interno dei quali i delinquenti possono muoversi liberamente e in modo autodeterminato perseguendo un lavoro. Tutto ciò che viene generato in questi luoghi di lavoro dovrebbe andare a beneficio delle vittime del crimine. Nel complesso, questo modello costerebbe ai contribuenti molto meno dell’attuale sistema penale, evitando gli effetti negativi che le prigioni hanno sui detenuti.
Nel complesso, il ragionamento di Galli è molto perspicace, specialmente nella parte centrale del libro, dove fa un caso convincente del perché il nostro attuale sistema giudiziario fa più male che bene. Tuttavia, alcuni aspetti rimangono poco chiari: come si può, all’interno di un sistema capitalistico, rafforzare l’attenzione alla dimensione sociale di certi crimini, in modo che, per esempio, i manager corrotti vengano maggiormente consegnati alla giustizia rispetto a piccoli criminali provenienti da ambienti poveri? Come può avvenire un ripensamento, quando l’autore stesso afferma che il diritto penale serve a “mantenere il nostro sistema economico capitalista il più funzionante possibile” (p. 206)? Galli lascia in sospeso da dove potrà venire la forza motrice del cambiamento riformista.
Rimane anche aperto, per esempio, secondo quali criteri i criminali più gravi sono assegnati a tale categoria, poiché spiega altrove che l’accuratezza delle valutazioni prognostiche è molto bassa. Nonostante queste questioni aperte, il libro di Galli è altamente raccomandato, scritto in modo interessante e ben documentato. Il suo progetto di un futuro senza prigioni non sembra quindi una lontana utopia ma piuttosto un’alternativa molto concreta.
Di Lena Hezel per kritisch-lesen.de
Il libro: Autore Thomas Galli: Weggesperrt. Warum Gefängnisse niemandem nützen. (Rinchiuso. Perché le prigioni non servono a nessuno). Edition Körber, Amburgo 2020. 312 pagine, ca. 22.00 SFr, ISBN 978-3-89684-279-4
Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid