Le acque verde scuro si sono infilate tra le pietre del piccolo porto di City Island, a est del Bronx. Guardo il moto lento delle onde e il volo solitario di qualche uccello che sorvola i pescherecci. Siamo all’inizio della primavera, dopo un anno intero di pandemia. È la prima volta che esco di casa e mi avventuro in qualche posto un po’ più lontano. Non ho avuto voglia di vedere la sabbia gialla di Brighton Beach, dove vado nelle estati assolate. Ho deciso di andare a vedere partire un traghetto che porta le persone a un cimitero. Non è tristezza, e non è morbosità. La morte non mi crea sgomento, né mi angustia. Dopo un certo momento nella vita è meglio abituarsi all’idea che siamo solo di passaggio e cerchiamo di fare del nostro meglio, sempre. Da quel piccolo porto, ogni settimana, parte un traghetto verso un’altra isola vicina, circondata di misteri e di dolore.

La prima volta che ho sentito parlare di Hart Island è stato in un reportage sugli effetti dell’epidemia di AIDS a New York. La città fu fortemente colpita dal virus e migliaia di corpi non identificati furono portati là. In un documentario, ho visto amici delle vittime che cercavano di avere accesso all’isola, nella speranza di rendere omaggio, portare fiori e dare un addio che non era stato possibile.

Il porto è l’accesso di molti amici che non hanno avuto il tempo di dire addio e che renderanno omaggio a delle tombe sconosciute, simboliche. La vecchia idea del tributo al milite ignoto, che i civili hanno dovuto inserire in occasioni di pandemie, che, come le guerre, prosciugano vite a ripetizione. Osservo tutto con rispetto, ma anche con molta curiosità. Senza radici né famiglia in città, potrebbe essere questo il mio destino? Il mio disprezzo per i funerali e i riti probabilmente lo deciderà e Hart Island forse sarà la dimora finale non solo mia ma di migliaia di vite che hanno condiviso con me questa generazione di immigrati, rifugiati e smarriti dall’ovile.

Ascolto e registro storie.

Eugene è infermiere e si imbarca nel prossimo traghetto. Mi ha raccontato che non può dire addio al suo miglior amico. Thomas è sparito senza lasciare traccia e non avendo parenti in città, l’ospedale ha mandato il suo corpo a Hart Island. Migliaia di storie come questa sbocciano nelle chiacchiere in metropolitana, nelle piazze e nelle conversazioni al cellulare, in una città ripetutamente segnata dalle tragedie. C’è un grande dibattito per far diventare l’isola accessibile, un monumento alle epidemie che hanno devastato il mondo e la città. Un futuro giardino della memoria e della nostalgia. Mi auguro che questo succeda e che il concetto di famiglia sia allargato per legge al punto che tutti noi possiamo prenderci cura dei nostri cari amici.

L’isola è adibita da un secolo a cimitero per quelli che non hanno nome, reddito o famiglia. Adoperato fin dalla febbre spagnola, vi sono registrati più un milione di sepolture, cosa che lo rende il più grande luogo di sepoltura di massa del Paese.

Nell’immaginario della città, Hart è un’isola stregata, circondata di mistero. Molti credono sia il luogo dei poco amati, delle persone sole che non sono state capaci di creare da vive dei legami affettivi, per altri è un ritratto della disuguaglianza dove i più poveri, senza accesso a funerali e servizi di cremazione, sono depositati per l’eternità. Io la vedo in un altro modo. Hart è un cimitero in cui i ricchi non hanno privilegi, non possiedono monumenti, o statue. Poveri, ricchi, artisti, mendicanti, tutti insieme nelle fosse comuni, alcune con centinaia di bare di legno chiaro, identiche. L’emergenza ha fatto di Hart un enorme monumento alla solitudine umana, al destino dei nomadi, di quelli che in tutte le città vagano e spariscono.

Sul traghetto sale Eugene e un gruppo, e portano con sé fiori e lacrime. Stiamo andando verso gli ultimi mesi della pandemia, con la vaccinazione che prosegue e gli indici che si abbassano, ma i segni resteranno. La nostra generazione resterà segnata dalla vicinanza con la sparizione repentina, di massa. Sono sopravvissuto a due pandemie nel mio breve tempo di vita e non c’è modo di nasconderne le cicatrici.

Tutti noi ora siamo una specie di Hart Island, rifugio e destino. Così come l’isola, saranno sempre visibili in tutte le mappe, per tutti quelli che guarderanno verso l’infinito, verso l’orizzonte del mare.

 

Traduzione dal portoghese di Raffaella Piazza. Revisione di Silvia Nocera