Nella sede dell’Università di Parma c’è uno speciale totem: conteggia e ricorda da quanti giorni Patrick Zaki è in carcere in Egitto. Con l’accusa di aver pubblicato su Facebook “false voci e false notizie che mirano a turbare la pace”, lo studente dell’Università di Bologna è recluso dall’8 febbraio del 2020. La sua ‘causa’ tiene ancora banco in Italia: dopo Bologna, la ‘sua’ città, centinaia di Comuni gli hanno conferito la cittadinanza onoraria, hanno esposto striscioni, e si sono moltiplicate le iniziative per la sua liberazione. Una lunga stagione di impegno ‘da remoto’ che il Covid non ha fermato.
“È meglio accendere una candela che maledire il buio”, recita il proverbio cinese a cui si ispira l’azione di Amnesty (in prima fila per Zaki). E il 7 maggio, a 15 mesi dall’inizio della sua detenzione, inizia ‘Una luce per Patrick’: i Comuni terranno le luci dei municipi accese e chi vorrà potrà unirsi con una candela alle finestre. Contatore, candele, striscioni… non hanno cambiato le cose, Zaki è in prigione e la sua detenzione si è appena allungata di altri 45 giorni. Più si alza la voce per liberarlo, più rimbalza in Egitto su un muro di gomma che già da tempo avrebbe potuto fiaccare gli sforzi di chi vede in Zaki qualcosa di più di una storia a cui appassionarsi e a cui dedicare slancio ideale e impegno da remoto. Ma ora la parabola di questa lunga mobilitazione è ad uno snodo interessante e importante: martedì arriva in Senato la mozione per conferire la cittadinanza italiana a Zaki e il Governo Draghi, inizialmente freddo, stante anche il muro di gomma in Egitto, ha aperto alla possibilità di conferirla al 29enne (come chiedono anche oltre 200.000 firme). Dopo i cortei, i presidi, e tutto quello che si è fatto, questa è forse una delle ultime ‘carte’ che la politica può giocare. E che può smuovere le acque.
Non è solo una faccenda simbolica. L’Italia – dove basta citare lo ius soli per impantanare la politica in dibattiti estenuanti ed inconcludenti – sta per ‘adottare’ questo studente egiziano. Può essere un ‘precedente’ importante per molte altre questioni, ius soli compreso. È un voto che pesa. Tant’è che in Liguria la Lega si è astenuta sulla proposta (“Non riteniamo necessario il conferimento della cittadinanza italiana”). La cittadinanza non è solo una targhetta: spesso ci si scotta anche, come è capitato sempre a Bologna (vedi casi Mihajlovic e Aang San Su Kyi). Al cittadino italiano, dice la Costituzione, è garantita una libertà personale “inviolabile”. Può diventare uno status con cui chiedere con più forza un lieto fine per Zaki. Ma il punto è se lo si farà davvero: se il massimo organo di rappresentanza del paese voterà per il ‘sì’ e se dopo non succederà granché, allora forse si rischia di aver fatto di questo passaggio solo una tappa coi nastrini da segnare sul contatore di Parma.
Diverso è se, quali e molte cose succederanno dopo. E cosa si dirà attorno a questo voto. Con la cittadinanza, a quel livello, vien da dire, ‘non si gioca’. Se si è issata la bandiera di Zaki a questo livello la sua vicenda non è più solo quella di singolo, ma mette in gioco molti piani simbolici ed educativi. Nella prefazione ad un libro di Amnesty del 1997 che racconta storie a lieto fine di prigionieri e perseguitati si legge: “Al di là che l’esito di una campagna può avere, la sua stessa esistenza è un atto di resistenza, una testimonianza contro l’assuefazione spettacolare” e “la vita delle persone che spesso soffrono dipende dal modo di raccontare, dalla capacità di farsi ascoltare, di spiegare e di convincere”. Inquadrato così quel voto di martedì è qualcosa di più di un sforzo da aggiungere alla lista di quelli già fatti o da fare. Molti dicono: non è una priorità. Ma proprio perché non è solo una scelta sì-no alla cittadinanza può essere un fatto importante, specie se farà vedere che ha conseguenze dimostrando che ci sono cause, anche lontane, che vale la pena custodire e per le quali battersi. Avrà un valore educativo. “Il vero patriota saprà vedere le cose dal punto di vista del proprio vicino oltreché del proprio e cooperare con lui anziché prepararsi a combatterlo”, disse uno che di educazione se ne intendeva (il fondatore degli scout B.P.).