I terribili eventi di questi giorni in Palestina non ci offrono molti elementi nuovi, sia con riguardo alla portata della violenza di Israele, sia in merito all’assenza di una pronta ed efficace azione della comunità internazionale.
Quello che sta cambiando, forse, a giudicare dalle partecipate piazze di protesta di questi giorni in tutto il mondo, è la reazione dell’opinione pubblica.
Senza tema di smentita possiamo dire che ciò sta avvenendo grazie ad un maggior contributo di quei media indipendenti dai grandi gruppi editoriali che hanno il coraggio di offrire spazio a riflessioni schiette e testimonianze dirette.
Noi di The Human Exploring Society siamo in costante contatto con fonti locali che ci raccontano da tempo cosa sta avvenendo.
In particolare in questi giorni scorsi sto personalmente e quotidianamente raccogliendo le testimonianze di due ragazzi Palestinesi che si trovano a Gaza.
Nas, 20 anni, ci ha raccontato per tutta la scorsa settimana, sin dall’inizio degli attacchi, la situazione nei luoghi dei bombardamenti, ricominciati dopo gli sfratti di decine di famiglie palestinesi dalle proprie case a Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est molto vicino alla città vecchia in cui Israele vuole sostituire le famiglie palestinesi con famiglie israeliane, in chiara violazione del diritto internazionale, così come avviene in tante altre zone dei Territori Occupati.
La realtà, infatti, è che l’ONU non ha mai riconosciuto l’annessione di Gerusalemme Est a Israele, ma Israele continua ad occuparlo militarmente e ad eseguire sistematicamente pulizia etnica.
Questa non è stata la causa degli scontri, ma certamente il detonatore.
La situazione era già pesante a causa dell’innalzamento del livello di violenza da parte di gruppi di estrema destra che il governo lascia liberi di operare con rastrellamenti e minacce agli abitanti ed ai commercianti Palestinesi di Gerusalemme.
A questo clima si è aggiunto l’intervento armato di Israele all’interno della moschea di Al-Aqsa con spari sulla folla dei manifestanti al suo interno.
Nas vive lontano da lì, e a Gerusalemme non può andare, rinchiuso nel campo di concentramento più grande del mondo: la Striscia di Gaza.
Grande quanto un quarto dell’area metropolitana di Londra, è abitata da 1 milione e 800 mila Palestinesi (il terzo luogo più densamente popolato del Pianeta).
Nas vive nell’area più sovrapopolata, Al-Shati, anche conosciuta come Beach Camp, situata più a nord nella Striscia e pesantemente colpita dai missili israeliani sin dalle prime ore dall’inizio di questi bombardamenti.
“Immagina di sentire le bombe di Israele per venti, trenta minuti di seguito” mi dice.
“Subiamo bombardamenti sporadici, ma erano sei anni che non ci sentivamo attaccati in questo modo”.
Quando gli chiedo della situazione sanitaria, Nas conferma con molta freddezza che è sempre stata tragica perché “non ci sono sufficienti attrezzature mediche per affrontarla. I casi di Covid sono tanti ed i più gravi muoiono in casa per mancanza di cure. Anche perché da qui è quasi impossibile raggiungere gli ospedali che si trovano in Israele o nei Territori Occupati”.
Nas ha perso la mamma quando lui aveva 14 anni ed un anno fa il fratello più grande, entrambi per il cancro, e ora vive con un cugino rimasto solo perché anche suo fratello è ricoverato in condizioni critiche a causa di un tumore.
Fonti scientifiche internazionali hanno segnalato da tempo l’eccessiva incidenza dei casi di cancro nella Striscia di Gaza, soprattutto tra i più giovani.
“Questo disastro – conferma Nas – è l’ effetto della contaminazione ambientale che subiamo da sempre.
E’ difficile avere acqua potabile e fogne adeguate perché non è facile costruirle. L’acqua con cui ci laviamo non è potabile: cerchiamo di non ingerirla, certo, ma anni dopo anni… E poi l’energia elettrica, che già regolarmente abbiamo per non più di 6 ore al giorno, spesso manca all’improvviso bloccando così gli impianti di depurazione ed impedendo di conservare correttamente certi alimenti. E considera anche che il cibo arriva spesso avariato perché i carichi vengono bloccati per giorni alla frontiera, sotto il sole… A tutto questo devi aggiungerci le bombe, quelle di venti anni fa, quelle di adesso, chissà cosa contenevano e chissà quali sostanze continuano ad uscire da lì”.
Gli elementi radioattivi ed i metalli pesanti rilasciati dai ripetuti bombardamenti devono certamente aver contribuito a questa situazione, resa ancor più complicata dal fatto che Israele nega un terzo delle richieste provenienti dai Palestinesi di Gaza che necessitano di cure per il cancro negli ospedali al di fuori del campo di concentramento.
Alcuni trattamenti base come la radioterapia non sono possibili a Gaza.
A due terzi dei bambini malati di Gaza viene negata l’accompagnamento di un genitore se devono essere curati in ospedali fuori da Gaza.
E migliorare la situazione ospedaliera dall’interno di Gaza è praticamente impossibile perché nel 2018 ad esempio, sono state negate il 98% delle richieste di personale medico che voleva partecipare a tirocini, corsi di aggiornamento o conferenze fuori da Gaza.
Chiedo a Nas come le aziende ed i negozi riescano a ricevere beni di prima necessità.
“Solo attraverso il valico di frontiera di Karam Abu Salem, controllato peraltro da Israele che ogni tanto lo chiude improvvisamente per giorni interi”.
Proviamo per un attimo ad immaginare che tipo di situazione si creerebbe se l’intera Regione Liguria ricevesse merci esclusivamente attraverso una strada.
Ma Nas, come tanti Palestinesi, non si arrende facilmente ed è anche impegnato nel volontariato, collaborando attivamente con il progetto internazionalista Gaza FreeStyle che porta dall’Italia attivisti, contributi ed idee per permettere ai giovani gazawi di esprimersi con le arti di strada. Con successo, visto che quando parliamo di questo argomento le parole di Nas si illuminano.
“La mia prima attività con loro è stata la costruzione di un’area per lo skate. Poi le amicizie sono diventate sempre più strette, ed ora li considero la mia seconda famiglia. Ogni volta che vengono a Gaza io sono lì per offrire il mio aiuto in ogni modo possibile.”
Per un giorno intero non lo abbiamo sentito, poi quando è tornato on line ci ha rassicurato: “stavo cercando di dormire, la scorsa notte non ho chiuso occhio perché le bombe sono cadute molto vicine, ed una ha distrutto un edificio residenziale in cui abitavano molte famiglie. Sto cercando di avere informazioni su quanti morti ci sono stati. Perché di sicuro ce ne sono stati.”
Nel corso degli stessi giorni ho parlato a lungo anche con Ali, ed anche lui per lunghissimi periodi è risultato irraggiungibile a causa della mancanza di energia elettrica.
Ma non solo.
Nella quarta notte di bombardamenti ha dormito nell’azienda in cui lavora perché era impossibile tornare a casa senza rischiare seriamente di essere colpito da una bomba.
Ali vive a Beit Hanoun, proprio al confine con Israele, e spesso uno dei primi centri abitati ad essere duramente colpiti quando cominciano gli attacchi.
“Oggi hanno colpito una casa in cui viveva una donna ed il suo figlio disabile. Sono morti entrambi. Ormai è chiaro che stanno colpendo le abitazioni. Penso di essere al sicuro uscendo ad un certo orario o fermandomi in un certo posto, ma in realtà non sono mai al sicuro. Nessuno di noi qui è al sicuro.”
Mentre ci aggiornavamo reciprocamente sui bollettini dei morti che giungevano dalle fonti locali, provavamo a parlare anche di altro, perché Ali lavora, ha studiato Business Administration e vorrebbe lavorare all’estero, ma è soprattutto un magnifico artista.
“Vorrei tanto studiare Storia dell’Arte all’Università di Siena e per questo motivo sto cercando di migliorare il mio italiano. Dipingo da molti anni, è il modo con cui mi esprimo”.
Mi invia le foto di alcune delle sue tele, tutte dense di ricerca degli equilibri nel colore, tratti morbidi, ma nessun compromesso nel messaggio.
Vengo attratto dal dipinto di una donna crocifissa: “Dipingo spesso nudi di donna, e non è facile in un paese in cui la cultura ha una forte connotazione religiosa… Ma questo è il modo con cui voglio aiutare la Donna a liberarsi da una società in cui c’è troppa mascolinità e poca sicurezza. Vivo in una società arabo-musulmana che mantiene usi e costumi tradizionali, e per tale motivo sono stato minacciato ed incarcerato numerose volte, ma non demordo. Quello è l’oggetto della mia arte e voglio continuare a dipingerlo.”
Gli dico che trovo una certa influenza di Dalì in alcune tele e lui me lo conferma ridendo: “mi sono persino fatto crescere i baffi come lui! E ora sono concentrato anche su una serie di dipinti inerenti la metafisica”.
Poi la conversazione si interrompe di nuovo per altre 48 ore prima che Ali ricompaia, più scosso del solito.
“Alcune abitazioni vicine alla mia sono state colpite,” mi dice “ma ciò che più mi ha devastato è che un edificio non lontano da qui in cui vivono molte famiglie numerose sia stato colpito da 30 missili. Trenta missili su una casa. Trenta. Vogliono ammazzarci nelle nostre case! Stanno morendo tanti bambini perché non sappiamo più dove metterli al sicuro”.
Al momento in cui termino questo articolo sia Nas che Ali non rispondono da diverse ore; sono preoccupato ma sono fiducioso sul fatto che lo faranno, esordendo come al solito con le loro scuse per essere stati via troppo tempo.
Scuse non dovute quelle di Nas e Ali.
Scuse superflue quelle di due ragazzi nati e cresciuti sotto le bombe.
Quelle dovute invece, quelle necessarie, dovrebbero giungere a loro da quella parte di società israeliana che sta contribuendo da decenni a replicare lo sterminio subito dai loro avi.
Possiamo pure continuare all’infinito con i nostri sensi di colpa riguardo ai passati crimini a danno degli Ebrei, ma ora ci sono vite che meritano attenzione ed azione: il Genocidio Palestinese può essere fermato.
Manlio Pertout – The Human Exploring Society