Piantare alberi al posto delle mine. La vita che sostituisce la morte in una delle regioni più sofferenti del mondo, il Sahara occidentale, dove ampie fette di territorio sono disseminate di ordigni che creano terrore e uccisioni. Una onlus italiana sta portando avanti qua il progetto “Un albero per ogni mina”, che coinvolge la popolazione locale, in particolare le donne, per mettere in sicurezza il paese e gettare le basi per la sua rinascita.
In uno degli angoli più martoriati del pianeta, un progetto prova a mettere insieme riforestazione e sminamento. Il Sahara Occidentale è un territorio dalla storia tormentata che ancora oggi stenta a trovare pace. Colonia spagnola sotto Franco, poi passato parzialmente sotto il dominio del Marocco, oggi è un territorio scisso, spaccato in due dalla seconda muraglia più lunga del mondo (dopo quella cinese), disseminato di mine.
Lo stato marocchino, che ne occupa abusivamente i territori, sfrutta le risorse come i fosfati, il pesce, i metalli e le materie prime, in accordo con le grandi aziende europee. In questo modo la ricchezza di risorse naturali cozza drammaticamente con la povertà delle popolazioni che lo abitano, i saharawi, letteralmente “abitanti del Sahara”.
Un progetto italiano, portato avanti dalla cooperativa Reseda Onlus in collaborazione con un gruppo di donne sminatrici saharawi, il Sahara Mine Action Women Team (SMAWT), ha recentemente ideato un modo per mettere assieme il necessario lavoro di sminamento (ed educazione alla sicurezza), con l’attività di piantare alberi, fondamentale per la resilienza dei territori. Si chiama Un albero per ogni mina.
«Il nome – racconta Roberto Salustri, fondatore e direttore tecnico scientifico di Reseda Onlus – viene da una precedente iniziativa locale che si chiamava Un fiore per ogni mina, in cui i bambini mettevano un fiore di carta sul muro marocchino. Noi abbiamo preso spunto da questa iniziativa artistica e gli abbiamo dato un ulteriore valore trasformativo».
Le mine in questione sono quelle che costellano il territorio circostante il muro che separa i territori occupati dal Marocco dai territori liberati. Il “muro de la verguenza” – “muro della vergogna”, come lo chiamano i saharawi – che proprio quest’anno “festeggia” i 30 anni dalla sua costruzione, è circondato da circa 9 milioni di mine antiuomo e ordigni inesplosi, su cui spesso “inciampano” fuoristrada o cammelli. Persone. Sono stati calcolati circa 2500 incidenti (dato aggiornato al 2015), a volte fatali, altre molto invalidanti.
Una macchina dilaniata dall’esplosione di un ordigno
Reseda Onlus lavora già da diversi anni nel Sahara Occidentale. «Fin dai primi anni Duemila ci siamo occupati di feriti da mina, abbiamo anche ristrutturato un ospedale per i feriti da mina, a cui abbiamo portato l’acqua, rifatto i bagni per disabili. Successivamente vi abbiamo affiancato un progetto sugli orti familiari solari e da lì è nato il progetto di riforestazione del deserto».
Gli alberi sembrano essere infatti degli ottimi alleati per la resilienza delle famiglie locali, soprattutto in epoca di instabilità climatica. «Abbiamo visto che oltre a fare gli orti riuscivamo a coltivare e far crescere gli alberi, in particolare alberi da frutto come melograni, olivi e moringa. Questa piante diventavano strumenti di sussistenza e resilienza per gli orti, essendo gli unici che resistono alle tempeste d’acqua – che con i cambiamenti climatici sono sempre più frequenti – e che sono in grado di proteggere le coltivazioni dal sole».
Tre anni fa le esperienze di sminamento e quelle di riforestazione sono confluite in questo nuovo progetto. «L’idea di Un albero per ogni mina è semplice: piantare alberi al posto delle mine che vengono rimosse. Così otteniamo tre risultati in uno: sminiamo, riforestiamo e segnaliamo le zone sicure. Gli alberi infatti diventano un segnale di una zona sicura, che è già stata sminata e dove anche i bambini possono giocare liberamente».
Una donna della SMAWT pronta a piantare un albero.
A circa un anno dalla sua partenza, il progetto si è arricchito di una collaborazione fondamentale. Per liberare il terreno da questo pericolo invisibile sono attive molte squadre di sminamento, fra cui la SMAWT, che ha due caratteristiche peculiari: è composta da sole donne e ha integrato l’attività di sminamento con un’opera certosina di sensibilizzazione al rischio da mina. «Si posizionano nei punti di maggior percorrenza e ai checkpoint – spiega Roberto – a distribuire volantini con le informazioni su come riconoscere, evitare e segnalare le mine e lo stesso fanno nelle scuole, dove fanno lezioni ai bambini e diffondono i materiali che le aiutiamo a stampare. Mostrano anche come sono fatti gli ordini, anche perché alcuni, tipo le cluster bomb, somigliano molto a dei giochi».
Nella società saharawi le donne hanno un ruolo centrale: «Affiancano al ruolo tradizionale di madri – di cui vanno molto orgogliose – incarichi pubblici e ruoli sociali e istituzionali centrali. Le percentuali di rappresentanti donne nel governo e nelle istituzioni sono molto alte».
Grazie all’incontro con SMAWT, Reseda ha assunto un ruolo soprattutto di supporto e formazione da remoto: «Cerchiamo di fornire alle donne della SMAWT gli strumenti e le attrezzature migliori per fare il loro lavoro. Ad esempio in questo momento stiamo facendo una raccolta fondi, attraverso il 5 per mille, per inviare loro i kit per lo sminamento e il primo soccorso: degli zaini con tutti gli accessori necessari».
La questione del prestare soccorso immediato a chi subisce un incidente da mina o altri ordigni non è di poco conto, in un territorio desertico in cui spesso i primi ospedali distano centinaia di chilometri. «Stiamo lavorando anche per insegnare come fare il primo soccorso: questo significa formare le donne della SMAWT e altri operatori e dar loro le attrezzature necessarie per bloccare le emorragie dei feriti e aiutarli a sostenere il dolore mentre vengono trasportati in ospedale. Se sei nel mezzo del deserto con i primi villaggi a decine di chilometri e il primo ospedale a 400 chilometri di distanza, anche questo aspetto – che si chiama Remote live support ovvero supporto alla vita nelle aree remote – diventa fondamentale».
Foto di Maria Novella De Luca http://www.marianovelladeluca.com/