Assenti, taciuti, i morti palestinesi sono rimossi. Di loro non vi è nome, né storia. Espropriati dalla condizione di uomini, portano i pesi di tutte le epoche, hanno spalle immense e cuore d’argilla, poroso all’oltraggio. Le loro case non hanno letti né sonno, né sedie né stanchezza; un palestinese non dorme né sogna, si esercita nella memoria, può vivere di fantasmi e di ombre. La sua casa è abbattuta, senza foto e lenzuola di lino, neppure il suono dell’‘ūd1, in festa o in agonia, sa fermare un bulldozer. Intanto sulla terrazza d’Europa si consumano aperitivi di noia e fastidio, la conversazione continua, si fa finta di nulla.
Anche gli oppressori somigliano alle vittime, hanno sbarrato l’ingresso al ricordo; il rimorso lo hanno riempito di stucco e ogni crepa sembra al suo posto; i loro misfatti se li sono buttati alle spalle, dietro la linea verde di un arcobaleno artificiale. Il muro li protegge da domande che sgretolano ogni propaganda, da un nemico che li abita nei corridoi delle loro coscienze, che si è gelato davanti ai palazzi di avidità e arroganza che si sono costruiti. Una metastasi avanza nelle città, nei villaggi, nelle terre di ulivi e limoni, erode confini e carte geografiche nell’affanno di riscrivere la storia sulla storia degli altri.
Questa è una vita “in minore”, una scala di normale indifferenza, quotidiana come la pioggia di nomi sulle pagine affari esteri dei giornali, incomprensibile e assurda, eppure logica, di quella asettica e burocrate delle cancellerie di stato.
Yusef Abu Aker, nel marzo del 2014 viene ucciso da un soldato dell’IOF, Forze di Occupazione Israeliane, in un villaggio nei pressi di Hebron / Al-Khalil mentre raccoglieva gli akub2. Erano circa le 7.00 del mattino, Yusef stava andando a scuola, aveva solo quattordici anni.
Le spighe di Yusef
Aspettavo le piogge
era marzo
era il tempo dei cardi selvatici
a un passo
sulle colline
vigneti di odio
e tristezza
Di madre in madre
di figlia in figlia
il dolore era una stirpe
Esiliati
nelle scarpe
nelle carte
in confini
come linee di febbre
Ne avrei raccolte un fascio
spighe di lacrime
e albe d’agosto
le avrei date a Jasmine
per i suoi occhi
di vento e pudore
sulle colline
di papaveri e akub
Ne avrei raccolte un fascio
spighe di porpora
e baci
le avrei date a Jasmine
per la sua bocca
di sale e silenzi
lei che amava le rose
e rideva come l’acqua
che spacca le rocce
Hanno occupato anche il cielo
una rondine di ferro
stendeva le ali
“nuvola d’autunno”
marmo per un altro sudario
Che colpa ho avuto
se amavo i campi
di malva e za’atar3
se il grano piegava la nuca
ad ogni carezza?
Mia madre aspettava…
un’attitudine alla morte
La mia gente ha biglietti di attesa
in fila all’ultima fila
per un proiettile
di vita
di dignità
La mia gente risparmia le ore
ne ha fatte collane
di onde
ostinate
in fila sul filo del non senso
nei cortei invisibili
della pazienza
le appende sulle porte
di Al-Shuhada Street4
Aspettavo le piogge
era marzo
era il tempo che ascoltavo
mu’alim5 Karim
lui che nominava le stelle
ogni mese
un verso una luna
un kitab6
una notte da attraversare
Conosceva l’ombra
e l’aurora
le chiamava per nome
come si chiama
una donna… Alnilam
un sospiro
sulle labbra
la luce di Orione
Era il tempo che sognavo
Jasmine
sorridevo se la sua audacia
mi sfiorava i capelli
piangevo se la sua corsa
mi lasciava da solo
Ora non sono più saggio
né ho meno paura
o angoscia
ho lasciato i miei amici,
mia madre si è fatta pietra
nella terra che genera
pietre
e poeti
ho il sussurro che parla ai vivi
agli aquiloni contro i superbi
agli oppressi contro i codardi
alle vittime contro le vittime
Giusy Diquattro è nata a Ragusa. Laureata in Filosofia presso l’Università di Pisa con Remo Bodei sul concetto di Conversione in Agostino, nel 2000 vince una borsa di studio presso l’Università di Bucarest sul Diario della felicità di Nicolae Steinhardt, nel 2005 consegue il perfezionamento in Comunicazione e Mediazione Interculturale presso l’Università di Torino. Dal 2000 vive a Torino, dove insegna Lettere. È raccoglitrice di storie di migrazione per il Centro Interculturale, con cui ha pubblicato Victory at the end in Il cibo in valigia (2015) e Nora Moskora in Andata e ritorno. Percorsi tra genitori e figli, ANANKE lab (2018). Alcune sue poesie sono state inserite nelle seguenti antologie: Enciclopedia di Poesia Italiana, vol. 8/2017, Fondazione Mario Luzi Editore (2018); Prosa poesia per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2019); Poesie per Dio. Quasi una preghiera, Edizioni La Zisa (2019); Un paio di scarpette rosse, Kanaga Edizioni (2019), Canti per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2020); nel romanzo di Daniela Bignone, La tigre dal passo gentile. Dall’Afghanistan all’Italia, storia di Sherkhan, Citta Nuova (2020).
1 Strumento a corde, liuto a manico corto.
2 Pianta della Gundelia, chiamata comunemente “cardo selvatico”, molto diffusa nelle zone semi aride del Vicino Oriente.
3 Miscela di spezie originaria del Vicino Oriente.
4 Al-Shuhada Street, via principale della città di Hebron / Al-Khalil, chiusa ai palestinesi dopo il massacro della Moschea di Abramo, avvenuto il 25 febbraio del 1994, ad opera di Baruch Goldstein, membro di un movimento di estrema destra israeliana, che riportò 29 morti, molti dei quali ragazzi di appena dodici anni, e 125 feriti. Oggi la via assiste ancora alla chiusura di tutti i negozi palestinesi, è simbolo di una città fantasma e teatro annuale di dimostrazioni di attivisti sia ebrei che palestinesi per la sua riapertura e rilancio del commercio.
5 Maestro, insegnante in lingua araba.
6 Libro, in lingua araba.