In occasione della presentazione del libro di Vera Pegna “Autobiografia del Novecento. Storia di una donna che ha attraversato la Storia” edito dal Saggiatore, abbiamo avuto la fortuna di incontrarla e intervistarla. Vera Pegna, con i suoi 87 anni, mantiene una grandissima lucidità e freschezza. Lei ha voglia di raccontare e noi di sapere.
Cara Vera, partiamo dall’inizio.
Sono nata nel 1934 ad Alessandria d’Egitto e lì ho vissuto per circa 20 anni con la mia famiglia, che ci teneva molto al nostro essere italiani. In Egitto si parlavano tante lingue: oltre all’arabo, l’inglese, il francese, il greco, magari mescolandole, ma a casa nostra guai, si doveva parlare una lingua per volta e bene, e poi c’era un elenco di parole che si potevano usare in una lingua diversa se non esisteva un esatto corrispettivo in quella che stavamo usando. In quel tempo l’Italia era ancora fascista, ad Alessandria c’era una scuola italiana, la Don Bosco, ma quando mio fratello e io tornammo a casa facendo il saluto fascista, mio padre ci tolse immediatamente. Voleva metterci alla scuola inglese, ma dal momento che eravamo “nemici” non ci volevano, però finirono con accettarci grazie all’intervento di un amico inglese altolocato che assicurò che eravamo antifascisti. La English Girls’ College era una scuola “stra-borghese”, dove oltre alle lezioni si facevano tante attività che mi sono poi servite nella vita: per esempio il Citizens’ club, una specie di parlamento della scuola: ogni classe eleggeva due alunne, poi c’erano le riunioni plenarie del parlamento, c’era l’ordine del giorno, bisognava essere chiari, non divagare e mai interrompere. Ho studiato lì fino alla maturità. A quel punto mio padre avrebbe voluto che mi sposassi, ma io non ne volevo sapere e fu grazie a mio nonno che disse “No, no! Deve studiare!” che andai in Svizzera, all’Università Ginevra. Per iscrivermi alla Scuola d’interpreti dovetti riempire un modulo, e alla voce “lingua madre” non seppi cosa rispondere, per cui misi tutte e tre le mie lingue: italiano, inglese e francese. Venni interrogata da tre professori madrelingua e superai le prove. Mi laureai e specializzai velocemente in “Interpretazione di conferenza”, cioè il metodo di traduzione simultanea che era stato inventato pochi anni prima a Norimberga, durante il famoso processo alle SS. I nostri insegnanti stessi si erano formati lì, erano persone magnifiche. Terminai la Scuola di interpreti nel ’57. All’esame finale eravamo pochissimi, solo in 5. Il fatto di avere tre “lingue madri” mi servì molto nel mio lavoro e, da libera professionista, ne ebbi sempre tanto.
Come andasti a finire in Sicilia?
All’università feci un incontro – per me vitale – con uno studente inglese buddista che mi introdusse alla nonviolenza. Ne rimasi folgorata. Poco dopo lessi un articolo su Danilo Dolci, che veniva chiamato “il Gandhi siciliano”, per cui andai a trovarlo a Partinico.
Quale fu la prima impressione?
Terribile. Arrivammo all’ora di pranzo, io naturalmente ero vegetariana, e quando arrivai lui stava mangiando una bistecca! A me si strinse il cuore. Danilo era bravissimo, capì subito che il fatto che io conoscessi l’inglese e il francese gli sarebbe stato utilissimo e io mi lasciai convincere volentieri a stare lì. Nel frattempo mi ero fatta un cliente importante, “Il centro internazionale per l’insegnamento del giornalismo” di Strasburgo: lavoravo al loro seminario annuale di un mese e con quel guadagno campavo il resto dell’anno a Partinico. Rimasi quasi due anni con Danilo Dolci, ma presto cominciai a sentirmi a disagio. Quando chiedevo alle mie vicine “Perché non venite alle iniziative di Danilo?” rispondevano che sì, era un uomo buono che si era preso in moglie la vedova di un pescatore con 6 o 7 figli, ma non capivano cosa ci facesse là. Così col tempo ho capito che, tranne qualche eccezione, le iniziative proposte da Danilo avevano poco seguito perché i metodi di lotta nonviolenta che lui proponeva, come lo sciopero della fame, non appartenevano alla cultura locale. E i mariti delle mie vicine mi dicevano: “Ma come lo sciopero della fame? io vado a letto tutte le sere con la fame…”.
Cara Vera, ci restituisci con le tue parole una figura di Danilo Dolci più “umana”, con i suoi limiti, mentre forse in tanti siamo stati abituati a idealizzarla.
Danilo è stato utilissimo perché ha fatto conoscere la miseria della Sicilia, l’analfabetismo, la disoccupazione, la mafia (anche se va detto che la mafia non gli ha mai torto un capello, per fortuna). Dove ero molto severa io? Nel fatto che lo vedevo utilizzare, a fin di bene certo, ma pur sempre utilizzare, la Sicilia e i siciliani. Un esempio: era l’anno in cui lo Sputnik russo andò in orbita e lui mandò noi volontari a fare inchieste, chiedendo: “Cosa pensi di questo razzo che va verso la luna?”. A me era toccata la regione delle Madonie, una regione di grande emigrazione, dove erano rimasti vecchi e bambini. Le risposte che mi arrivavano erano del tipo: “Eh no! Non va bene un razzo sulla luna, le cose del Signore non si toccano!”. Danilo usò come esempio questa frase per dimostrare il “basso livello tecnico-culturale” dei siciliani! Non era vero, perché per esempio gli operai del cantiere navale facevano tutt’altri discorsi. C’erano insomma queste forzature. Ti do un altro esempio: c’erano molte visite, persone importanti, uno di questi – René Dumont – era un agronomo francese, consulente della FAO, persona eccezionale. Era venuto a conoscenza di questa esperienza e io lo accompagnavo, sempre per la questione della lingua. Ricordo che Danilo lo portò a vedere una collina coltivata verticalmente, “a rittochino” si dice, facendogli notare che i contadini coltivando in quel modo perdevano i semi con la pioggia. René Dumont mi chiese di tornarvi il giorno dopo, guardò più attentamente la terra e disse: “hanno ragione i contadini, questa terra è argillosa, se arassero nell’altro senso l’acqua piovana stagnerebbe e i semi marcirebbero…” Per me non era accettabile forzare su questo presunto “basso livello tecnico culturale dei contadini”.
Come te la cavavi col siciliano?
Benissimo, l’ho adorato subito. Io parlavo molto con la gente, la mia casa era piena di bambini che entravano e uscivano, le vicine mi portavano da mangiare. L’ho imparato presto.
Dopo due anni, lasciasti.
Si, furono i miei vicini che erano comunisti e mi introdussero a quel partito. Io ero da poco in Italia e non sapevo niente della politica, la mia famiglia era antifascista, ma anche anticomunista. Invece questa famiglia siciliana mi raccontava che “no, è una cosa bellissima, tutti i proletari del mondo si uniranno, faremo un mondo più bello!” Erano entusiasti, anche se semianalfabeti. C’era un ideale splendido che li faceva lottare. Allora ho pensato: “Ma forse sono comunista?!” Nel frattempo, a Danilo Dolci era stato assegnato il premio Lenin per la Pace, consisteva in 17 milioni di lire, tanti soldi. Lui assunse Michael Faber, uno che aveva fatto il piano di sviluppo della Rhodesia; questi arrivò con la famiglia e disse: “Provo per tre mesi e poi vediamo”. Faber chiese i dati della Sicilia occidentale, ma non c’erano, e Danilo la fece facile mandando noi volontari in giro a raccoglierli. Io ero la responsabile dei volontari, c’era qualche italiano e qualche straniero, ma nessun siciliano. Per me era tragico, dal momento che Danilo andava in giro per l’Europa raccontando della situazione in Sicilia e chiedendo l’aiuto di volontari: spesso così arrivavano le persone più inutili… cosa potevo far fare ad un norvegese esperto in triangolazioni che non sapeva una parola di italiano? Insomma le cose si complicavano, ci si perdeva d’animo e in 4 o 5 decidemmo di lasciare.
Andai a Palermo alla federazione del PCI, suonai alla porta e al compagno che mi aprì dissi: “Credo di essere comunista e vorrei parlare con voi.” Mi guardò con sospetto (poi me lo raccontò, quando diventammo amici) e mi portò da Napoleone Colajanni, persona raffinata, che capì subito che ero una studentessa borghese benintenzionata. Colajanni mi diede tre libri da leggere per capire se ero davvero comunista. “Il Manifesto”, “Che fare?”, “Un passo avanti e due indietro”. Dopo averli letti ritornai più convinta di prima; mi disse che a quel punto mi mancava l’esperienza pratica e mi mandò in un comune dove si votava fuori turno per dei brogli alle elezioni precedenti. Disse che era una roccaforte della mafia dove il partito era molto debole e non avevamo nulla da perdere. Così andai a Caccamo.
E lì cosa è avvenuto?
Arrivai sulla piazza, dove mi avevano detto che c’era la sezione, con la mia utilitaria ancora targata Ginevra. Salii e vidi una stanza squallida, qualche panca intorno al muro, dei manifesti alle pareti con Stalin, Togliatti e in mezzo Santa Rita, la santa dei miracoli impossibili. Uno si alzò e mi disse: “Chi sei? Cosa vuoi?” Io: “Mi manda il partito. Sono venuta a vedere se si può presentare una lista, fare una campagna elettorale…”. “No, no!”, mi rispose, “Qua c’è la mafia e non si può fare niente”. Mi raccontarono storie di ammazzatine, anche di un compagno, Filippo Intili, ammazzato su un monte lì vicino, a colpi di accetta. Un giovane compagno però mi disse: “Ma noi dobbiamo lottare! Cerchiamo di fare qualcosa! Io, per esempio, sono giovane e non posso lavorare, non trovo lavoro, perché sono comunista”. Eravamo in piena campagna elettorale, quindi si potevano fare comizi, parlare in pubblico, senza permessi. Così ci lanciammo in questa campagna elettorale, con me che non sapevo cosa fosse la mafia. Non avevo nessuna soggezione. A Partinico non se ne parlava, tanto meno la si respirava. Invece qui il territorio e la vita ne erano intrise. Capii velocemente cosa volesse dire la mafia nella vita quotidiana delle persone, la mafia si sostituiva alle istituzioni, allo stato. Anche i carabinieri…. Quando andai alla stazione dei carabinieri, dal maresciallo, a dirgli: “Guardate che io domani vado con i miei compagni sul feudo a dividere il grano secondo la legge” lui mi rispose: “Dica a chi la manda che è un fetente”. Io insistetti perché mi aiutassero a far rispettare la legge e lui mi urlò più forte la stessa frase. Io gli dissi: “Se non viene domani il fetente è lei!” E andai via sbattendo la porta.
C’è da aggiungere che in quel periodo nelle campagne di Caccamo era ospitato un latitante, Michele Greco, il quale ogni pomeriggio alle cinque veniva al bar centrale a giocare a carte. In quelle ore la stazione dei carabinieri rimaneva chiusa, sbarrata. Questa era la mafia. Io ne sapevo poco, ma sapevo che era qualcosa di inaccettabile, da combattere. Affrontavo i mafiosi di petto. I miei compagni mi avevano messo a fianco un guardaspalle, il compagno Giorgio, piccolino, arrabbiatissimo, che poi ho saputo che “caminava vestuto”, ovvero con un lungo coltello nascosto. Un giorno, sul corso mi avvicinarono due giovani ben vestiti, e mi dissero che volevano conoscermi, offrirmi un caffè. Io guardai Giorgio che fece sì con la testa. Ci sedemmo al bar e questi cominciarono chiedendomi se fossi fidanzata, sposata… Io cominciavo a spazientirmi, mentre Giorgio mi dava dei colpi da sotto. Loro continuarono: “Perché se vuole sposare un notaio a Bolzano o un professore a Torino, glielo troviamo noi…”. Giorgio allora mi trascinò via, dicendomi a gran voce che non avevo capito la minaccia…
Il titolo del mio libro “Tempo di lupi e di comunisti”, che racconta nei dettagli questa storia, richiama un episodio di quel periodo: in piena campagna elettorale eravamo andati a San Giovanni, una frazione sperduta, a tenere un’assemblea. Stavamo preparandoci a partire con la mia Topolino piena di compagni quando scoppia un temporale tremendo, ci facciamo coraggio, arriviamo, la porta si spalanca col vento e parte un grande applauso perché già non ci aspettavano più. Si alza una vecchia e dice con tono solenne: “Tempo di lupi e di comunisti!”. Solo i lupi e i comunisti uscivano con quel tempo… E’ stata un’assemblea particolare, densa di emozione, come spesso accadeva, e ancora adesso non riesco a spiegarmelo. Come mai io che venivo da un altro pianeta, famiglia borghese, Egitto, Svizzera, università… Eppure li adoravo e loro pure. Uno stesso interesse profondo. In quell’assemblea a San Giovanni furono le donne a farsi sentire – una volta tanto – e a spiegarmi quanto soffrissero per essere analfabete. La loro consapevolezza , che ho spesso incontrato, mi commuoveva. Davano importanza al sapere leggere e scrivere quanto al mangiare. Mi facevano capire che bisognava realizzare un mondo migliore.
Alla sezione di Caccamo facevamo la lettura a voce alta di articoli de l’Unità, leggevo io, poche righe, le rileggevo e discutevamo, e mi accorgevo che loro capivano sempre di più che potevano e dovevano pensare oltre il quotidiano, il qui ed ora, e pensare ai problemi della società, in grande. Si elevavano, e io con loro. Pensavamo insieme allo sfruttamento, al lavoro, ai problemi economici e sociali. Era una sorta di comunione nella quale ci aiutavamo a vicenda a prendere coscienza del mondo. Ecco perché oggi, 65 anni dopo, ancora mi commuovo a pensare a Caccamo. Quando la Rai fece qualche anno fa un documentario su questa mia esperienza, il fatto che a presentarlo fu il procuratore antimafia mi colpì moltissimo. Finalmente, dopo tanti anni, un’istituzione dello Stato apprezzava quello che avevamo fatto. Perché noi in quegli anni, dalle istituzioni, non avemmo mai un cenno di risposta alle nostre richieste. Anche il partito, in fondo, non aveva capito.
Com’era la tua giornata tipo?
Arrivavo in tarda mattinata, mi portavo un frutto o un panino per il pranzo, andavo in sezione, ascoltavo, poi andavo in giro per il paese. Vedevo porte, finestre e scuri che si chiudevano al mio passaggio. Allora capii che un buon luogo per trovare la gente erano le fontanelle, dove le donne stavano molto tempo ad aspettare che arrivasse l’acqua, perché l’acqua arrivava in genere un’ora al giorno ma non si sapeva quando. Così parlavo con loro e gli dicevo: “Ma la vostra vita non vale proprio niente? Sapete che la moglie del mafioso che sta lì, ha l’acqua in casa, sempre’?”. A volte andavo a casa dei compagni, dove spesso l’uomo era nei campi, si mangiava uova e formaggio e poco altro. Poi si leggeva il giornale e si faceva qualche riunione in sezione. Si preparavano le azioni del giorno dopo. Invece poi, quando sono stata eletta, andavo in Comune a vedere i bilanci, e l’impiegata mi sbatteva le porte in faccia, gridando “E’ roba nostra!”. Io dicevo con calma che ero stata eletta e lei mi gridava: “Che eletta ed elettaaaa!!!!”.
Le elezioni furono un successo inaudito: venimmo eletti in 4 – 4 su 30 – e per la prima volta il PCI entrò nel consiglio comunale. Il giorno della prima riunione noi 4 consiglieri sfilammo insieme per il corso e le donne sedute davanti alla loro porta si facevano il segno della croce: io credevo fosse un augurio, poi capii che era uno scongiuro… Quando arrivammo il messo comunale ci fece entrare nella sala consiliare e ci accompagnà alle nostre sedie: erano 4 sedie nere, quando tutti ce le avevano bianche. Vidi davanti a me, accanto alla postazione del sindaco e del segretario, una poltrona di pelle. Chiesi per chi fosse e il messo mi spiegò che quella era la poltrona di don Peppino, cioè del capomafia! A causa della fedina penale sporca non poteva essere eletto, ma sedeva di autorità all’interno del consiglio comunale e in una poltrona! Io andai e mi ci sedetti, tranquillamente. La sala, che era piena di consiglieri, si svuotò, per la paura di essere chiamati a testimoniare! Dopo poco tornò il messo e disse che doveva togliere quella poltrona che ormai non serviva più, così mi alzai e lui la tolse. Quella storia mi è rimasta ben impressa.
Tornando ad allora: la lotta per la divisione del raccolto fu durissima. Era tradizione consolidata in tutta la Sicilia che il raccolto si dividesse a 50 e 50 e i semi e il concime li mettesse il mezzadro, malgrado la legge Gullo che divideva il raccolto a 60% al mezzadro e 40% con sementi e concime a carico del padrone. I mezzadri conoscevano la legge, ma dicevano “Non si può…”. Invece parlammo con molti di loro dicendo e ripetendo che si poteva. Chiedemmo aiuto anche ai dirigenti politici, ma nessuno volle venire a Caccamo. Un bel giorno, ci eravamo ben preparati, andammo sul feudo di un certo Ciaccio, dove c’erano dei mezzadri nostri che si erano impegnati a provarci, a forzare, a dividere secondo la legge: 60 e 40. Arrivai sul posto con due compagni, Ciaccio ci aspettava, già lo sapeva, venne verso di me e gridò: “Chi è questa fimmina tinta?” (donna cattiva). Io gli tesi la mano per presentarmi e gli dissi: “Buongiorno signor Ciaccio mi chiamo Vera Pegna”. Lui cominciò a inveire, urlando. Io dissi che eravamo venuti ad applicare la legge, lui gridò che lì la legge è una sola, la sua, cominciò a minacciare chi stava per separare il grano e i mezzadri cominciarono a esitare. Come sempre in quelle occasioni c’erano le famiglie e i bambini, e le donne iniziarono a piangere e a pregare mentre Ciaccio urlava con la bava alla bocca. La situazione era molto tesa, allora dissi che andavamo a chiamare i carabinieri, e Ciaccio urlò che li chiamava lui e parlò all’orecchio di suo figlio. In realtà mandava a chiamare il capomafia! A quel punto capimmo che la situazione era troppo tesa. I mezzadri non avevano il coraggio, davanti a noi, di tornare alla vecchia usanza. Così decidemmo di toglierci di mezzo, dicendo qualcosa del tipo che chi avesse preso la sua giusta parte non solo avrebbe avuto un po’ di raccolto in più, ma avrebbe portato a casa la sua dignità, e con le lacrime agli occhi ce ne andammo. Quando arrivammo in paese, distrutti, dissi: “Facciamo un comizio!”. Il barbiere, dopo molte esitazioni, ci attaccò la corrente per l’altoparlante e cominciai a raccontare la storia. Vennero in tanti, erano curiosi, l’esperienza era fresca. Raccontavo: “Ciaccio chiama il figlio e gli dice di andare a chiamare i carabinieri… Il figlio, meschinetto, sbaglia l’uscio e va da don Peppino!” Risata generale! Il barbiere staccò la spina e la mia voce si spense. In quel momento preciso, sentìì “Bella ciao” in lontananza e vidi una macchina con sopra un grande simbolo del partito: erano i compagni di Milano mandati a sostenere la campagna elettorale regionale. Uno scese, mi tese un megafono e la mia voce di nuovo riempì la piazza. Quel compagno si chiamava Paolo ed è stato il mio compagno di vita per molti anni.
Come finì il periodo a Caccamo?
Beh, la seconda minaccia fu più esplicita: una sera avevo da poco lasciato Caccamo e, lungo i tornanti che scendono verso Termini Imerese, una macchina si accostò alla mia spingendomi verso il burrone. Mi fermai a pochi centimetri dal vuoto e la macchina sfrecciò via. Quando il giorno dopo lo dissi ai compagni mi chiesero: “Dove, quale curva?”. Vedo ancora le loro facce tirate mentre mi raccontano che quella era la curva dove avevano ammazzato quello e poi quell’altro… Rimanemmo in silenzio a lungo. Subito dopo – eravamo nel ’62 – ci fu la strage dei Ciaculli . A Palermo in uno scontro tra due clan mafiosi una Giulietta carica di tritolo saltò per aria uccidendo sette carabinieri, una strage. Il giorno dopo il giornale l’Ora usciva con le foto dei capimafia probabili mandanti: uno era don Peppino Panzeca di Caccamo che si diede subito alla latitanza. L’articolo raccontava che don Peppino era capo di un grande mandamento che trafficava eroina e anche presidente del tribunale della mafia della Sicilia Occidentale. Noi non sapevamo che era un pezzo da novanta e la cosa ci spaventò ancora di più. Nessuno al partito ci diede ascolto. Decisi di andarmene.
Come hai fatto ad inserirti così bene? Tu giovane donna del nord, da sola, al volante…
Forse perché era così sincera la mia indignazione e così diverso il mio modo di affrontare la mafia. Una volta un compagno mi disse “tu nostra sorella sei, frate e sore, core a core”.
Ricordi in qualche modo Peppino Impastato?
Certo, anche se non l’ho conosciuto. Entrambi usammo l’ironia.
Quando tornai a Caccamo nel 2015 ci fu un’assemblea partecipatissima, incredibile, c’erano molti giovani che mi dicevano “Noi vogliamo combattere la mafia, ma non abbiamo esempi di antimafia!”. “Vi sbagliate”- dissi- “Ci sono stati compagni ammazzati, che dovete riscoprire, ricordare… Io magari sono stata più visibile, ma loro sono andati fino in fondo e sono morti”. Feci notare che un compagno, Intili, ammazzato ad accettate, non aveva neanche una tomba in cimitero. Andammo poi insieme al sindaco a ricostruire dove fosse stato ammazzato e posammo un cippo lassù e una lapide in cimitero con una bella cerimonia. La mafia ha perfino il potere di cancellare chi ha lottato contro di lei.
E dopo la Sicilia?
Mi sono trasferita a Milano e ho vissuto con Paolo. Ho ripreso il mio lavoro, che ho amato molto, di interprete di conferenza, e militato nella vivace sezione del PCI, dove c’era anche Rossana Rossanda. Lì abbiamo fatto rivivere le cellule: quella della Scala, quella dei pompieri, dell’INPS… Sono uscita dal partito nel ’69 insieme ad altri 17 compagni, sul Viet Nam, perché la federazione comunista di Milano voleva che “limassimo” le nostre posizioni e non dicessimo più, con i vietnamiti, “Rivoluzione fino alla vittoria”… Insomma, dovevamo smetterla di parlare di rivoluzione. Fu uno scontro durissimo e alla fine uscimmo, poco dopo la vicenda del Manifesto.
Negli anni ’90 diventai rappresentante dell’UAAR (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) presso la FHE, Federazione umanista europea, l’organizzazione ombrello di tutte le associazioni laiche, umaniste, atee, agnostiche, di liberi pensatori e di non credenti. Secondo il giurista Margiotti Broglio la metà della popolazione europea è indifferente alle religioni, atea, agnostica, umanista, senza trascendenza, eppure presso l’Unione Europea la FHE aveva un unico rappresentante, a differenza della cinquantina dei rappresentanti religiosi, compresa Scientology e qualche altra setta…
Le tue parole sono ancora importanti per i giovani.
Me ne sono accorta nel 2019, nella campagna elettorale per le europee che feci nelle isole, come candidata nella lista “La Sinistra”: ho incontrato dei giovani compagni, attivisti, magnifici, commossi che una compagna “storica”, come mi chiamavano, facesse campagna elettorale a 85 anni. Loro faticano a vedere il futuro, il loro e quello del pianeta, il momento è tragico. D’altra parte sta sempre a noi scegliere se subire quello che di orribile ci tocca vedere in questo mondo o reagire, dando in qualche modo un contributo attivo per cercare di migliorare le cose, almeno intorno a noi. Così dicevo e dico loro che ci sono tantissimi movimenti che si raggruppano spesso su un solo tema (l’acqua, l’immigrazione, o altro). Dico loro: “Fatelo, impegnatevi, date il meglio di voi stessi, non vi risparmiate”. Penso che questo sia il modo migliore per avere una vita con delle soddisfazioni e poi si tessono relazioni meravigliose con altre persone.
Due parole che ti ho sentito usare parecchio: giustizia ed intransigenza.
Tutte le proteste, gli scioperi, sono dovute a ingiustizie, a quello che percepiamo come un’ingiustizia. Quindi, se vogliamo che il mondo viva in pace, dobbiamo coltivare la giustizia. Riporto le parole di Gandhi: “Un compromesso è giusto se ti avvicina al tuo obiettivo”. Io ho scelto un’estrema intransigenza sui principi, sulla correttezza nel modo di comportarmi e ho scelto anche la mitezza, che non è da deboli, da sottomessi o da rinunciatari, anzi, la mitezza è dei forti. Valorizzi molto di più le tue idee e i tuoi principi se non li urli, non li butti in faccia agli altri e se vivi in modo sobrio.
Un’ultima domanda: è difficile il compromesso tra la vita pubblica e quella privata?
Si, io ho una figlia e dei nipotini, è difficile, ma è la qualità del tempo che hai passato o che passi con loro che conta, non tanto la quantità. Puoi stare con loro tutto il giorno e starci distrattamente, puoi starci poco, ma dando significato e valore allo stare insieme. Io ho un nipotino di 14 anni che si dice comunista e vegetariano, vi pare poco?