I morti sono otto, 60 i feriti.
Oltre a questo, è chiaro che ammazzeranno lo stesso Tarek Bitar, se non riusciranno a farlo desistere: alcuni broker hanno aperto le scommesse sulla data.
Tarek Bitar è il giovane giudice istruttore che indaga sull’esplosione del Porto di Beirut, accusato dai movimenti sciiti di politicizzare l’inchiesta indagando i loro esponenti più che non quelli altrui.
Per questo, dopo avere fallito ieri, per la seconda volta, nella richiesta di rimozione del magistrato, respinta dalla Corte di Cassazione, e non ascoltati nella richiesta in Consiglio dei Ministri di un intervento politico contro il giudice, i sostenitori dei due movimenti Hezbollah e Amal sono scesi in piazza per protestare davanti al Palazzo di Giustizia.
Secondo quello che riportano i presenti di parte sunnita e cristiana, qualcuno all’interno della manifestazione avrebbe aperto il fuoco, costringendo le Forze Libanesi, formazione di parte cristiana, a rispondere e scatenando una caccia all’uomo che è durata diverse ore.
Secondo le fonti sciite, invece, la manifestazione era del tutto pacifica, e i colpi sarebbero partiti da cecchini appostati sui tetti dei palazzi intorno al Tribunale, proprio con l’intento di destabilizzare la piazza e porre le basi per ulteriori violenze, che già si prevedono nei prossimi giorni.
Ma cosa spaventa tanto Hezbollah nell’inchiesta di Bitar?
Bisogna ricordare che il 4 agosto 2020, per motivi ancora non chiariti, il porto di Beirut è stato coinvolto da una doppia esplosione, di cui la seconda ha riguardato un magazzino in cui erano stipate diverse centinaia di tonnellate di nitrato di ammonio.
Un terzo della capitale è stata distrutta, 218 persone sono state uccise, oltre 6000 ferite, e 200.000 sono rimaste senza casa.
Hezbollah oppone che l’indagine è viziata dal fatto di voler perseguire le autorità in carica al momento in cui
il nitrato di ammonio è stato scaricato e stipato, in gran parte sciite, anziché quelle in carica al momento in cui l’incidente si è verificato, soprattutto sunnite.
C’è un’altra cosa che inquieta Hezbollah, secondo le ricostruzioni non ufficiali: che la proprietà della nave che trasportava il nitrato di ammonio sia ricondotta a loro, con il conseguente sospetto che il carico fosse destinato ad uso militare, dal momento che la sostanza può essere usata sia come fertilizzante che come esplosivo – ed in questa forma è stata utilizzata per la costruzione degli ordigni nel conflitto siriano e negli scontri di frontiera con Israele.
Ma l’ombra più pesante che grava sulla posizione di Hezbollah è la convinzione radicata in tutti i libanesi – ma non ancora esplicitata, perché resta una pista di indagine – che il disastro sia stato dovuto ad alcune armi nascoste al Porto, e poi esplose con o senza l’intervento di Israele.
Quello che si sa di sicuro è che, al momento della tragedia, delle iniziali 3.500 tonnellate di nitrato, ne rimanevano solo poche centinaia, altrimenti la città sarebbe stata interamente rasa al suolo.
Il nitrato di ammonio sarebbe quindi stato o prelevato o rubato in grandi quantità: non sono accertati gli scopi, che pure si presumono.
Di certo si sa anche che, a pochi giorni dall’esplosione del Porto, un altro magazzino di armi hezbollah era saltato nella regione della Bekaa, senza provocare morti o feriti.
Se è chiaro a tutti che un’indagine volta ad accertare un’ eventuale responsabilità di Israele non porterebbe da nessuna parte, ed anzi non potrebbe che avere ripercussioni negative sul piccolo Libano, la pista Hezbollah è però altrettanto scivolosa, perché si inserisce in un momento di alta tensione internazionale fra gli USA (che sostengono Israele) e l’Iran (che sostiene Hezbollah), e che si sta giocando anche nel paese dei cedri sul futuro della politica energetica.
Infatti, da agosto la popolarità di Hezbollah è significativamente cresciuta perché il movimento ha fornito alla popolazione in ginocchio carichi di carburante di provenienza iraniana, arrivati forzando l’embargo americano.
Il cuore della questione energetica però riguarda soprattutto i giacimenti off-shore contesi fra Libano e Israele.
Il contrasto è irrisolto anche per la longa manus persiana che spinge per rivendicazioni inaccettabili; e questa sfida di potenza è anche la ragione del susseguirsi di visite internazionali in questi giorni: il 12 ottobre il Ministro degli Esteri iraniano Hossein Abdollahian e, subito dopo, giovedi 14, la vice-segretaria di Stato Victoria Nuland.
In Libano nulla succede per caso.
Le rivendicazioni sull’indagine di Tarek Bitar vanno dunque lette su un doppio piano: quello dell’organizzazione militare indipendente (Hezbollah) che agisce all’interno dello Stato, anche in contrasto con questo, e quello esterno degli equilibri geopolitici.
Certo è che a Beirut la tensione è altissima. Oggi le scuole sono state evacuate e la popolazione è consigliata di non muoversi da casa.
Per i libanesi si tratta di un ripetuto déjà vu.
La preoccupazione di tutti è che ci possa essere un’escalation di violenza a partire da un fatto banale: “anche nel 1975”, ricordano gli anziani, “tutto cominciò con l’assalto ad un pullmino. Quella sera, nessuno credette che la violenza sarebbe continuata il giorno dopo”.