Wampanoag, Massachusett, Nipmuc, Mohegan, Pequot, Narragansett, Passamaquoddy, Miꞌkmaq. Queste sono solo alcune delle nazioni indigene della terra ora chiamata New England, la patria di quella originale Cena del Ringraziamento avvenuta 400 anni fa, nell’autunno del 1621. Il mito di quel pasto condiviso si è evoluto nel corso dei secoli, descrivendo l’amicizia e la cooperazione tra i coloni inglesi di Plymouth, Massachusetts e il popolo Wampanoag che viveva là da almeno 10.000 anni. Quel momento pacifico fu nel migliore dei casi solo una tregua simbolica del genocidio dei popoli nativi a opera dei coloni europei, che a quell’epoca era già cominciato. Mentre le famiglie si riuniscono in tutto il paese per festeggiare il Giorno del Ringraziamento, le comunità indigene in prima linea sopravvissute a secoli di violenza, deportazioni e razzismo sistematico continuano a resistere, difendendo la terra, l’acqua e la loro stessa esistenza.
Quel centinaio di primi coloni, popolarmente chiamati “Pellegrini”, arrivarono nel territorio Wampanoag nel 1620. Dopo il primo inverno, distrutti dalle malattie e dalla fame, il loro numero era sceso a 54. Gli indigeni vennero in loro aiuto, insegnando loro come coltivare i prodotti locali. Al momento del raccolto, i coloni riuscirono a immagazzinare abbastanza cibo per sopravvivere all’inverno successivo e così organizzarono una festa celebrativa. Il popolo Wampanoag era reduce da un’epidemia pluriennale che aveva decimato le popolazioni native in tutta la regione e, secondo gli storici, cercò una collaborazione strategica con i coloni. Il re inglese Giacomo I stava incoraggiando la colonizzazione, arrivando a elogiare i benefici di quel contagio mortale, da lui definito in un proclama del 1620 una “meravigliosa peste”, che aveva causato “la totale distruzione, la devastazione e lo spopolamento di tutto quel territorio”.
Quella fu l’epoca che lo storico Bernard Bailyn, morto l’anno scorso all’età di 97 anni, descrisse come “gli anni barbari”, quando i Pellegrini organizzarono massacri sempre più feroci e campagne militari contro quei nativi di cui volevano la terra. Più tardi i leader avrebbero mascherato il genocidio in corso con un linguaggio più diplomatico e iniziative coloniali come il “Destino Manifesto” e l'”Indian Reorganization Act” del 1934, che cementò il moderno sistema di riserve impoverite e trascurate.
La Dichiarazione d’Indipendenza elenca tra le rimostranze contro Re Giorgio III il suo incoraggiamento agli attacchi contro i coloni da parte di “spietati selvaggi indiani”. Dal 1777 al 1868, gli Stati Uniti hanno firmato almeno 368 trattati con le nazioni native – e li hanno violati tutti. In Canada è successa più o meno la stessa cosa. Gli indigeni non hanno mai smesso di chiedere il rispetto di questi trattati e della loro sovranità nazionale.
Nell’autunno del 1969, un gruppo di attivisti nativi americani occupò la prigione federale abbandonata nell’isola di Alcatraz, nella baia di San Francisco, pubblicando un manifesto sarcastico in cui si chiedeva che Alcatraz diventasse una riserva, poiché ne aveva tutte le caratteristiche: era isolata, non aveva acqua corrente, servizi igienici, accesso all’istruzione, alla sanità o al lavoro, e i suoi occupanti sarebbero stati trattati come prigionieri. L’occupazione di 19 mesi coinvolse migliaia di persone e ispirò gli indigeni di tutto il Nord America a chiedere giustizia. Venne fondato il Movimento degli Indiani d’America, che nel 1973 portò all’occupazione di Wounded Knee (luogo dell’eccidio di un gruppo di Sioux Lakota da parte dell’esercito americano nel 1890, N.d.T.) nella riserva di Pine Ridge nel Sud Dakota e galvanizzò la solidarietà internazionale per i diritti indigeni.
Nel 2016, la resistenza indigena ha occupato i titoli di testa dei media mondiali quando i Lakota e i Dakota che si opponevano alla costruzione dell’oleodotto Dakota Access hanno organizzato dei campi di resistenza a Standing Rock. Il proprietario dell’oleodotto, la Energy Transfer Partners, ha sguinzagliato cani e picchiato i difensori dell’acqua nativi e gli accampamenti sono arrivati ad accogliere più di 10.000 persone, con oltre 200 nazioni indigene e tribù rappresentate. Alla fine l’oleodotto è stato costruito, ma da quella lotta è cominciata una nuova era di resistenza nativa.
Ora si stanno costruendo oleodotti per spostare il combustibile fossile più sporco del mondo, il petrolio delle sabbie bituminose nel Canada occidentale. La resistenza guidata dagli indigeni all’oleodotto Enbridge Line 3 nel Minnesota settentrionale è andata avanti per anni. La leader Anishinaabe Winona LaDuke è stata in prima linea. Ha criticato l’inazione del presidente Joe Biden sulla Linea 3 e ha commentato così nel notiziario di Democracy Now! la nomina da parte di Biden del primo membro di gabinetto nativo americano della storia, il segretario agli interni Deb Haaland: “Joe, non nominare degli indigeni solo per fare bella figura. Lascia che facciano il loro lavoro. Questo governo coloniale ha bisogno del contributo della comunità indigena. E’ così che avviene il cambiamento”.
Nella Columbia Britannica, in Canada, la nazione sovrana Wet’suwet’en si è opposta al gasdotto multimiliardario Coastal GasLink, costruito dalla TC Energy. Proprio questa settimana, la polizia federale canadese ha fatto irruzione in un blocco che durava da diversi mesi nel sito di perforazione del gasdotto, sfondando una capanna con un’ascia e una motosega e arrestando i difensori della terra che si trovavano all’interno. La polizia ha poi dato fuoco alla capanna.
Il mito di quell’abbondante pasto condiviso 400 anni fa da coloni e indigeni continua a mascherare la miseria, l’abuso di sostanze e l’epidemia di donne indigene scomparse e uccise. Ma le comunità indigene sono resilienti e organizzate e si sollevano nella resistenza. Dovremmo tutti ringraziare per questo.
Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo