Nella giornata dedicata al tema dell’energia della COP26 di Glasgow, più di 20 paesi e istituzioni finanziarie internazionali hanno lanciato una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a porre fine ai finanziamenti pubblici internazionali diretti a tutti i combustibili fossili entro la fine del 2022. L’Italia, che condivide con il Regno Unito la presidenza della conferenza sul clima, ha scelto all’ultimo minuto di aderire all’iniziativa, per non rimanere indietro nel panorama internazionale e dare finalmente un primo segnale di ambizione climatica dopo una serie di ingombranti passi falsi.
«I firmatari della dichiarazione di oggi stanno facendo ciò che è più logico per affrontare la crisi climatica: smettere di spargere benzina sul fuoco e sottrarre finanziamenti all’industria fossile. È un’ottima notizia che l’Italia, nel suo ruolo di co-presidenza della COP26, abbia aderito all’iniziativa», commenta Laurie Van der Burg di Oil Change International.
Tra i paesi aderenti ci sono nomi importanti, che pesano negli equilibri mondiali: Regno Unito – proponente – Stati Uniti e Canada. Accompagnati da paesi emergenti come Etiopia, Zambia e Costa Rica, tra gli altri – e istituzioni finanziarie pubbliche come la Banca Europea per gli Investimenti e la Banca dell’Africa Orientale per lo sviluppo.
Se implementata in modo efficace, questa iniziativa potrebbe sottrarre più di 17 miliardi di dollari all’anno all’industria fossile, secondo le stime di Oil Change International, una cifra che potrebbe crescere se i firmatari iniziali riusciranno a convincere altri paesi e istituzioni finanziarie pubbliche ad aderire.
Un’iniziativa che va innanzitutto nella direzione auspicata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), che nei mesi scorsi ha reiterato in maniera sorprendente la necessità di porre fine agli investimenti in nuove esplorazioni e produzione di petrolio e gas. Inoltre, potrebbe aprire una breccia nel blocco di potere rappresentano dall’industria fossile nelle nostre società, causa diretta o indiretta di disuguaglianze sociali, militarizzazione dei territori e devastazione ambientale.
L’iniziativa di oggi è però lungi dall’essere perfetta, con una serie di scappatoie da monitorare e per le quali sarà necessaria una forte pressione internazionale per chiuderle, avendo anche ripercussioni sull’agenda politica italiana e sul Sistema-Italia, che si basa su finanza privata-industria fossile-finanza pubblica.
C’è però la questione temporale: nell’arco di un anno, miliardi di dollari possono ancora passare dalle casse pubbliche alle tasche dell’industria fossile, sotto forma di prestiti o di garanzie.
Si parla poi di “eccezioni in circostanze chiare e circoscritte”, rimesse alla discrezionalità dei soggetti firmatari. In ultimo, è posta forte enfasi sul termine “unabated”, cioè tutto ciò che non può essere abbattuto in termini di emissioni: una scappatoia enorme per tutte quelle società fossili che vorrebbero proseguire con il business as usual grazie a tecnologie ancora in fase di sviluppo come la cattura e lo stoccaggio del carbonio.
Un anno è lungo, e l’agenda di SACE – l’agenzia pubblica italiana di credito all’esportazione – è ricca di valutazioni riguardanti possibili finanziamenti a progetti fossili devastanti, alcune delle quali già in fase avanzata e altre in fase preliminare: Arctic LNG-2 nell’Artico russo, mega-progetto di liquefazione di gas naturale nella penisola di Gydan; l’oleodotto EACOP, che dovrebbe tagliare in due Uganda e Tanzania.
«Riuscirà Draghi a mettere le mani nelle tasche di SACE e non in quelle delle cittadine e cittadini italiani? Riuscirà a mettersi di traverso al business as usual di Eni, Snam, Saipem e Nuovo Pignone? I trascorsi lasciano più preoccupazioni che speranze», commenta Simone Ogno di ReCommon. «Lo stop ai finanziamenti pubblici deve avvenire subito, non tra un anno, mandando definitivamente in soffitta i sogni di espansione delle società fossili italiane», conclude Ogno.