La vicenda di Antonio Raddi non può essere descritta col “giusto distacco” perché è impossibile un distacco, men che meno “giusto”
Ieri abbiamo documentato la ricostruzione di fatti che ha fatto in conferenza stampa la Garante comunale delle persone private della libertà personale di Torino Monica Gallo.
E’ una vicenda che si presta a più piani di lettura.
In Italia non c’è pena di morte, dal fine pena Antonio doveva uscirne vivo, ma questo non è successo. Durante la detenzione la persona è interamente nelle mani dello Stato, il quale ne è completamente responsabile.
La vicenda di Antonio non può essere derubricata a “tragico errore”, a “sfortunata circostanza”. Le ripetute richieste della Garante fatte al carcere di Torino ne sono la prova.
Uno Stato che non tiene conto delle proprie Autorità di garanzia è uno Stato pericoloso, perché violento, antidemocratico. Nel caso di Antonio non l’ha fatto, e Antonio è morto.
Il sistema giudiziario ha agito nei confronti di Antonio: è stato accusato e giudicato colpevole. Ha pagato il suo debito con la Giustizia oltre ogni limite. Ora la famiglia chiede giustizia per la sua morte: come agirà la Giustizia nei confronti di questa famiglia? Il PM ha chiesto l’archiviazione, la famiglia ha fatto opposizione, ci sarà un’udienza davanti al GIP.
Uno Stato che si autoassolve favorisce il senso d’impunità, la corruzione prima di tutto etica in coloro che, come la vicenda di Antonio inevitabilmente mostra, hanno letteralmente diritto di vita o di morte sulle persone.
Antonio doveva non solo uscire vivo dal fine pena, ma sarebbe dovuto essere stato oggetto di tutti gli sforzi possibili volti a rieducarlo. Il carcere non può e non dev’essere un mero contenitore di carne umana, ammassata oltre misura, data in pasto ai topi, in un ambiente igienicamente inaccettabile. Il Medioevo dovrebbe essere storia.
La Giustizia torinese nel recente passato si è vista protagonista di sentenze “esemplari”, talvolta opportunamente ribaltate in altri gradi di giudizio. In questo caso c’è una famiglia che chiede giustizia nei confronti del figlio morto in detenzione, nonostante tutti gli sforzi possibili messi in atto dall’Autorità di garanzia. Avrebbe diritto ad una sentenza, non “esemplare”, ma semplicemente giusta. Nulla potrà risarcire il loro dolore, ma il sapere che nessuno pagherà per la sua morte annunciata, aggiungerà dolore a dolore.
Il pensiero non può non andare all’impianto costituzionale, sul quale si regge il nostro sistema democratico, che sancisce l’uguaglianza tra le persone. Se Antonio fosse stato il rampolletto scapestrato di una famiglia bene torinese, o un delinquente “blasonato”: avrebbe fatto la stessa fine?
Ci troviamo di fronte ad un segnale emblematico, forse anche più significativo di altri. Anche in questo caso è forte il senso di diseguaglianza, la forbice sociale che sempre più sta affliggendo la nostra società. Stiamo già assistendo a prove generali di malcontento sociale, se questa iperbole di diseguaglianza non verrà invertita, ci troveremo ad affrontare un dura stagione di conflitto sociale.