La prima parte di una lunga intervista ad Eleonora Artesio (PRC) sullo stato della sanità piemontese che ci dà un’immagine approfondita sul valore del servizio sanitario universale, valore da coltivare e preservare
Lei è stata Assessora alla sanità in Regione Piemonte dal 2007 al 2010, cosa vede cambiato da allora ad oggi nella sanità piemontese?
Dal punto di vista della percezione esterna (intesa come sensibilità pubblicamente espressa dai politici, dai media e dal senso comune sull’importanza della protezione sanitaria) sicuramente una valorizzazione del ruolo della tutela della salute e della sua gestione pubblica. Valorizzazione indotta dalla fase drammatica della pandemia. Io ricordo, quando ero in Regione, che la preoccupazione era quella di rendicontare trimestralmente l’andamento economico dei servizi sanitari: la stella polare era il pareggio di bilancio. Le Aziende sanitarie che non riuscivano a garantirlo erano collocate nella lista nera di coloro che erano incapaci di controllare le spese, di ridurre gli sprechi, di evitare la dispersione di risorse. Oggi c’è un afflato comune nel dire che la sanità e la sanità pubblica devono essere messe nelle condizioni di funzionare con le risorse necessarie e non con un artificio contabile di pareggio che non tiene conto dei bisogni reali. E’ quindi cambiata la consapevolezza esterna.
Invece dal punto di vista della modalità organizzativa con la quale il sistema deve far fronte alla situazione attuale si pagano ora gli errori, almeno io li giudico tali, di quella stagione dei pareggi di bilancio a cominciare dal fortissimo ridimensionamento delle risorse umane. Mi riferisco in primo luogo alla mancanza di turnover, ma anche ai parametri delle dotazioni organiche (numero di operatori previsti per le attività sanitarie, n.d.r.): i pensionamenti non sono stati sostituiti. Non viene percorsa l’immissione di figure professionali che un tempo venivano giudicate necessarie per i protocolli terapeutici, ma che non erano ancora state rese stabili nel sistema e quindi sono state sottovalutate. Penso al ruolo degli educatori, degli psicologi. Stiamo quindi pagando adesso lo scotto di questo ridimensionamento di alcuni anni fa in cui le risorse umane erano una voce variabile nel bilancio e non l’ossatura del funzionamento della sanità.
La psichiatria sembra essere il dipartimento più in crisi della sanità piemontese. Che tipo di potere e influenza ha un capo dipartimento rispetto all’andamento generale che ha una disciplina medica all’interno del servizio pubblico?
In generale, e credo che questo sia rilevabile anche dai dati dall’Osservatorio Nazionale sui livelli essenziali di assistenza, c’è un sotto-finanziamento delle risorse alla psichiatria. Questo dipende dai riparti regionali. Lo Stato fissa dei parametri percentuali rispetto alla dotazione complessiva dei fondi destinati alla sanità, tuttavia nel momento in cui a livello regionale occorre determinare la ripartizione dei fondi destinati alle varie discipline sanitarie, non sempre questo obiettivo è raggiunto. O meglio, può essere raggiunto da un punto di vista formale: viene determinata un’assegnazione iniziale, che tuttavia nell’effettiva distribuzione a livello aziendale delle risorse, può non essere perseguito.
C’è sicuramente una tematica di inferiorità, per quanto riguarda la psichiatria, nella considerazione delle emergenze nelle necessità prevalenti.
Il tema che ho sempre giudicato fondamentale rispetto alla questione della salute mentale riguarda le politiche delle alleanze da una parte con i soggetti istituzionali aventi competenza, la salute mentale è una materia socio-sanitaria, coinvolge quindi anche le competenze delle pubbliche amministrazioni, in particolare quelle dei Comuni. Tutta la riabilitazione psichiatrica si fonda anche sulla dotazione di risorse collegate alla dignità di vita delle persone, dignità che è anche una condizione terapeutica. Poter disporre di un minimo di dotazione economica, cioè avere un assegno terapeutico, essere in grado di sperimentare una condizione di vita autonoma e quindi potersi organizzare in gruppi appartamento (co-housing, n.d.r.), o poter mantenere le relazioni famigliari e vivere delle esperienze diurne. Tutto ciò attiene ad aspetti terapeutici propri dell’assistenza socio-sanitaria.
Stiamo attraversando una fase nella quale il tema del disagio mentale è molto derubricato dal punto di vista delle priorità anche se oggi, con quello che leggiamo, specialmente nel contesto della neuropsichiatria infantile, quindi nei problemi di disagio emergenti nelle fasce minorili sembra costruirsi – come sempre in un’ottica di allarme a posteriori, mai in un’ottica di prevenzione – una nuova sensibilità.
In conclusione, dal mio punto di vista, c’è un problema di rappresentanza che coinvolge anche i professionisti, che evidentemente hanno i loro luoghi: la Direzione di Dipartimento, i Collegi aziendali, le Direzioni sanitarie. La capacità di rendere visibile da un lato il tema, dall’altro i bisogni. A livello comunale avevo proposto, e la proposta fu accettata, che fosse istituita una consulta comunale sulla salute mentale che rappresentasse le parti: i soggetti gestori delle funzioni assistenziali, i soggetti gestori delle varie forme di residenzialità psichiatrica, le rappresentanze dei malati. Un luogo pubblico dove rilanciare il tema e mettere a punto strumenti d’intervento più puntuali.
La psichiatria per le persone migranti: leggiamo fatti di cronaca che inducono a pensare che ci sia un problema di salute mentale che riguarda anche le persone che provengono da lontano. E’ cronaca recente la segnalazione ai vigili urbani da parte dell’Ospedale di Moncalieri di una persona migrante che non trovavano negli elenchi. Sua è la circolare del 2009 che chiarisce il comma 5 del Dlgs 286/98 che sancisce il divieto di denuncia da parte delle strutture sanitarie di soggetti sprovvisti di titolo di soggiorno valido.
Le persone sprovviste di un titolo valido di soggiorno vengono assistite con servizi dedicati. Questo è un tema che si misura di nuovo con la questione delle dotazioni organiche, delle risorse, della certezza dei percorsi di continuità. So che oltre che professionisti particolarmente dediti, sussistono anche delle condizioni importanti, giuste, qualificate, di avvicinamento all’assistenza specialistica, di garanzia di alcune prestazioni. Però il tema non mi pare strutturato. La questione che mi pare sia evidente è quella della strutturazione di questi percorsi, che non siano così dipendenti né da approcci ideologici, né dalla precarietà delle dotazioni. Dall’altro late c’è anche una questione legata al modo con il quale nel sistema pubblico si raccoglie, che è l’unico che ha la responsabilità di dare garanzie continuative, si raccolgono le esperienze pratiche che vengono condotte parallelamente da alcuni centri dedicati che hanno ormai una cultura ormai propria, autonoma, su queste tematiche, penso a Franz Fanon, all’esperienza che ha sul disagio mentale, delle persone che hanno vissuto percorsi migratori di fuga, di violenza, maltrattamento, induzione alla prostituzione. Parliamo di esperienze di vita individuale molto pesanti, che sono gestite in queste organizzazioni che hanno un loro mandato, una loro missione, in questa direzione. Organizzazioni che tuttavia dovrebbero avere la possibilità di strutturare ciò che hanno sedimentato, quello che incontrano, in convenzione con il sistema sanitario. Io ricordo molto bene quando alcuni anni fa ci fu la difficoltà di rinnovare la convenzione della ASL TO1 proprio con Franz Fanon.
Qui la seconda parte dell’intervista: https://staging1.pressenza.com/it/2022/02/sanita-piemontese-unapprofondimento-con-eleonora-artesio-ex-assessora-alla-sanita-della-regione-piemonte-seconda-parte/