Sembra difficile e persino futile parlare di metodologie per prevenire e mitigare conflitti nel bel mezzo di guerre devastanti come quella che si combatte in Ucraina. Sembra superfluo e persino stridente parlare di diplomazia di fronte alla débâcle della ragione e della ragionevolezza a cui assistiamo ogni giorno. Eppure c’è stato un tempo non poi tanto remoto—correva l’anno 2005—in cui la comunità internazionale ha pensato di potersi dotare di una dottrina flessibile e calibrata da attivare proprio per scongiurare/dissuadere i conflitti o per ridurne la carica devastante.
Si tratta della dottrina sulla Responsabilità di Protezione, nota anche con il suo acronimo inglese R2P, che i leader mondiali approvarono nel summit del 2005 sia pure con inevitabili scetticismi e mugugni. Il documento finale del summit afferma, al paragrafo 138, che “Ogni singolo Stato ha la responsabilità di proteggere le sue popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità. Questa responsabilità comporta la prevenzione di tali crimini, incluso il loro incitamento, attraverso mezzi appropriati e necessari. Noi accettiamo questa responsabilità e agiremo in conformità ad essa. La comunità internazionale dovrebbe, come appropriato, incoraggiare e aiutare gli Stati ad esercitare questa responsabilità.”
Questa solenne promessa rappresentava il precipitato logico del lavoro della Commissione Internazionale sull’Intervento e la Responsabilità degli Stati (2001) e ha contato campioni di calibro non proni alle pie illusioni quali Gareth Evans, ex ministro degli esteri australiano, e Louise Arbour, procuratora capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia e per il Ruanda e poi Alta Commissaria ONU per i diritti umani.
Perfezionata dopo l’intervento militare in Kosovo, la dottrina ribaltava e criticava le nozioni di ingerenza militare e del “diritto” di intervenire al cospetto di gravi violazioni dei diritti umani. Assunti, questi, che non solo riflettevano un’arbitrarietà di decisione, interessi politici e faziosità sotto il mantello dell’umanitarismo, ma stabilivano anche una gerarchia tra coloro che avrebbero ricevuto protezione e coloro che potevano essere ignorati.
Facendo perno sulla protezione e il rispetto dei diritti umani e il diritto umanitario internazionale, la R2P mette, invece, al centro non le motivazioni pure o pretestuose degli Stati coinvolti o intervenienti, ma il punto di vista e gli interessi delle vittime di abusi e violazioni. Si attiva solo quando gli Stati coinvolti non possono o non desiderano mettere fine alle atrocità o sono direttamente responsabili di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani, pulizia etnica, crimini di guerra e contro l’umanità.
Notava Louise Arbour che: “Nel suo nucleo, la norma fornisce una definizione di ampio interesse pubblico basato sui diritti umani universali, mentre fa appello alla saggezza pratica nell’ affrontare le minacce e gli abusi in corso prima che una crisi si sviluppi e si riversi altrove con conseguenze imprevedibili.”
A tal fine, il dovere di protezione nella R2P si distende in un continuum di prevenzione, reazione e impegno a ricostruire, che va dall’allarme preventivo, alla pressione diplomatica, alle misure coercitive (come, per esempio, le sanzioni), all’accertamento di responsabilità per chi si è reso colpevole di violazioni dei diritti umani, fino alla riabilitazione post-conflitto di istituzioni, strutture, e relazioni di comunità. Calibrandola a seconda delle situazioni, la norma mira a colmare i “vuoti” o le “brecce” nella protezione dei civili e può essere attivata sin dalle prime avvisaglie di condizioni che minacciano di deteriorarsi, rimanendo operativa fino a quando rispetto dei diritti e giustizia non siano ripristinati. Quest’ultimo punto è cruciale: la norma, infatti, mira a disinnescare rapide e disastrose “exit strategies” dei paesi coinvolti e della comunità internazionale e considera l’ impegno post-conflitto non come un ripensamento a cocci rotti, ma come parte integrante della pianificazione di protezione, stimolando così valutazioni equilibrate e tempestive sulle scelte necessarie a far sì che né l’inazione, né reazioni eccessive siano opzioni praticabili o condonabili. In sintesi, la norma preclude l’uso automatico della forza militare e attribuisce precise responsabilità per risposte e rimedi sia nel caso che essi siano dati o non forniti.
Per convertire il suo impianto teorico in pratica politica, la norma si dota di una serie di strumenti disponibili sia nella “cassetta degli attrezzi” dell’ONU, sia in quella degli Stati che delle organizzazioni regionali. In termini di prevenzione, per esempio, tali strumenti riguardano l’allarme preventivo, la cooperazione allo sviluppo, l’accertamento dei fatti con commissioni investigative indipendenti, e la diplomazia. Le sanzioni e le missioni di mantenimento della pace fanno parte della fase di reazione. In questa seconda fase, più “muscolare”, è importante fare riferimento alla pratica dell’ONU che concerne le “sanzioni intelligenti”, ovvero quelle mirate a colpire i vertici del governo e della sua amministrazione, le élite, e l’apparato militare e di repressione (embargo di armamenti, misure finanziarie, interdizione di viaggi, per esempio), ma non a indebolire la popolazione del paese indiscriminatamente. Di eguale importanza in questa seconda fase è l’applicazione della Risoluzione ONU 1325 del 2000 su “Donne, Pace e Sicurezza che menziona esplicitamente l’impatto della guerra sulle donne e il contributo delle stesse nella risoluzione dei conflitti per una pace durevole. La terza fase dell’applicazione della norma concerne, infine, gli aiuti umanitari e per la ricostruzione di istituzioni, strutture, infrastrutture e del tessuto civico e sociale. Anche in quest’ultima fase l’applicazione della 1325 è cruciale.
Pur nella sua razionalità e nella mancanza di alternative plausibili a disposizione della comunità internazionale, la R2P ha subito navigato in acque procellose ed è stata, sovente applicata dagli Stati nell’ottica del “supermercato”, ovvero prendo ciò che mi serve e lascio il resto sugli scaffali. Ciò è dovuto non solo alle fin troppo ovvie difficoltà nel trovare la volontà politica di agire di concerto di fronte a crisi covanti, imminenti o deflagrate. Persistenti dubbi riguardavano, inoltre, il fondamento giuridico su cui l’azione della comunità internazionale dovrebbe poggiare, anche se sono proprio le norme politicamente vincolanti come la R2P ad aprire la strada all’espansione del diritto internazionale che dà voce e potere negoziale alle vittime contro le ragioni del più forte. Perplessità sono state espresse sulla tempistica, la sequenza e il mix attraverso cui le misure di protezione dovrebbero essere applicate.
Infine, non c’è mai stato un consenso definitivo su chi dovrebbe essere l’attivatore in prima linea della norma quando gli Stati colpiti abrogano le loro responsabilità di protezione.
L’ONU per la sua vocazione e le organizzazioni regionali di prossimità per la loro maggiore capacità di influenza, grazie alla vicinanza al teatro degli eventi e la conoscenza dei potenziali crimini, dovrebbero essere i motori dell’azione. La storia, tuttavia, ci insegna che sia l’ONU che l’Unione Europea o altre organizzazioni regionali, lungi dall’essere perno e vettori propulsivi dello sforzo diplomatico o convitati di pietra al teatro dei forti, si sono dimostrati troppo spesso semplici comprimari d’argilla.
Loretta Bondì