Gli stereotipi sono parte di noi, sono uno strumento cognitivo che ci aiuta a semplificare la complessità del reale per provare a capire qualcosa di distante da noi e che non sperimentiamo direttamente. Per chi vive in Europa anche la guerra si è trasformata in uno stereotipo: la si studia a scuola, magari anche in università; si sente parlare delle sue atrocità durante gli anniversari o le giornate della memoria; si sentono le notizie di guerre combattute in qualche paese di cui forse si ignora la precisa collocazione geografica. Siamo cresciuti percependo alla guerra come a qualcosa di temporalmente o fisicamente lontano e abbiamo imparato a conoscerla attraverso i libri di storia o i giornali e i telegiornali.
Ma chi racconta la storia dimentica spesso una parte della popolazione, le donne. Come ricorda Simone de Beauvoir ne “Il secondo sesso”, le donne sono state una presenza-assenza: sono una presenza reale assente nella storia scritta dagli uomini tenendo conto solo del genere maschile. Il racconto della storia è influenzato da un bias di genere, che investe anche il modo in cui si immagina la guerra. Nello stereotipo condiviso, la guerra è combattuta dagli uomini e sono loro a morire al fronte mentre il resto della popolazione civile è al sicuro. Ma ora che sentiamo la guerra vicina, ora che torniamo ad aver paura per noi stessi, ricordiamo quanto la guerra possa essere sporca e quanto la devastazione che porta con sé non risparmi i civili.
Il lavoro di Amnesty International testimonia come nelle zone di conflitto e di guerra aumentino le violazioni del diritto umanitario internazionale e ad esser maggiormente colpite sono le fasce più vulnerabili della popolazione: donne, minori, persone disabili e persone azione. In particolare, le donne durante i conflitti sono state sistematicamente sottoposte a violenze e abusi sessuali e lo stupro di massa è stato utilizzato come arma di guerra e strumento di terrore verso la popolazione.
La giornalista Susan Brownmiller, nel saggio “Against Our Will: Men, Women and Rape”, illustra come lo stupro sia usato come strumento di offesa sistematico sia a livello che individuale che collettivo. Nel caso dei singoli stupri, gli uomini ricorrono alla violenza sessuale per punire le donne che trasgrediscono l’ordine maschile e quindi è un mezzo attraverso il quale far vivere le donne in uno stato di paura perenne e sottometterle. Con gli stupri di massa, durante le guerre, la violenza sessuale contro le donne diventa un’arma per intimidire l’intera popolazione e diminuirne la capacità di reazione. Lo stupro, in questi casi, celebra la conquista di un territorio da parte di una forza militare: l’abuso della donna, l’invasione del suo corpo, diventano simboli della conquista militare di un territorio e della sottomissione della popolazione civile. Gli effetti di uno stupro sono sempre devastanti per la vittima che lo subisce, passando dai danni fisici ai traumi psicologici. Lo stupro come strumento di guerra, tuttavia, presenta delle peculiarità: in seguito ad uno stupro, la vittima può contrarre delle malattie sessualmente trasmissibili o restare incinta, ma in zone di conflitto è quasi impossibile riuscire ad accedere a delle cure mediche adeguate o ricorrere ad un aborto sicuro, inoltre le vittime di stupro di guerra rischiano di essere stigmatizzate e allontanate dalla famiglia. Restare incinte a causa di un saldato nemico significa, nell’ottica di guerra, partorire un nemico. Gli stupri di guerra, inoltre, sono spesso stupri di gruppo e la vittima spesso viene abusata anche mediante oggetti come, per esempio, le canne dei fucili.
Gli esempi sono molteplici, basta guardare alla storia recente: lo stupro delle donne di Bengali negli anni ’70 da parte dei soldati pakistani; lo stupro delle donne vietnamite da parte dei militari americani durante la guerra in Vietnam; negli anni ’90 in in El Salvador, Guatemala, Liberia, Kuwait, ma anche in Afganistan, in Somalia, in Palestina, come in Libano, Haiti, Sudan, Zambia nonché a Timor fino ad arrivare alle atrocità commesse nel corso dei conflitti che hanno interessato l’area balcanica e il Ruanda.
Particolarmente importante fu la Risoluzione 780 del Consiglio di Sicurezza ONU, per indagare le violazioni dei diritti umani durante le guerre jugoslave e, in special modo, durante la guerra in Bosnia-Erzegovina. Dal lavoro della commissione emerse che erano avvenute gravi violazioni e si pose all’attenzione come i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio siano strutturalmente collegati alle violenze contro le donne. La Commissione condusse un’indagine senza precedenti sugli stupri e le violenze sessuali subite dalla popolazione civile e raccolse i dati intervistando 223 donne bosniache rifugiate in Croazia, Slovenia e Austria. Da questo lavoro emersero diverse tipologie di violenza sessuale compiute durante i conflitti: le violenze sessuali compiute prima dello scoppio del conflitto, durante lo scontro, nei campi prigionia, presso i rape-camps – ossia campi costruiti durante la guerra in Bosnia in cui si portavano soggetti per essere ripetutamente stuprati – e, infine, violenze dopo la fine del conflitto per l’intrattenimento dei soldati.
Con lo scoppio della guerra in Ucraina, dopo l’invasione del paese da parte della Russia di Putin, a preoccuparci sono le donne ucraine. Già sul finire del 2020 Amnesty International denunciava un aumento dei casi di violenza sulle donne nelle zone di Donetsk e Luhansk. L’ONG iniziò a rilevare tale incremento fin dal periodo 2017-2018, anni in cui il territorio caratterizzato dalla presenza di separatisti russi fu travolto da una grave crisi economica. Le tensioni tra filoucraini e filorussi favorirono, inoltre, la possibilità di reperire armi e il conflitto fra le parti continuò a crescere. Questo, per le donne, si tradusse in un aumento dei casi di violenza sessuale e domestica da parte degli uomini ucraini di entrambi gli schieramenti. Gli abusi si consumavano sia tra le mura di casa, laddove crescono le tensioni economiche e sociali il rischio è che gli uomini le riversioni sulle donne della propria famiglia, che fuori ai danni delle civili da parte dei militari.
Oggi la situazione sembra precipitare e a denunciare l’escalation di violenza è il governo ucraino, che invocando l’intervento e l’aiuto della NATO. Anche i gruppi di femministe russe, però, sono intervenute fermamente chiedendo al governo del proprio paese di fermarsi.
Il messaggio delle femministe, accompagnato dagli hashtag #FeministAntiWarResistance e #FeministsAgainstWar, è chiaro: “guerra significa violenza, povertà, sfollamenti forzati, vite spezzate, insicurezza e mancanza di futuro. È inconciliabile con i valori e gli obiettivi essenziali del movimento femminista. La guerra esacerba la disuguaglianza di genere e ritarda di molti anni le conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale: come dimostra la storia, durante la guerra il rischio di essere violentata aumenta più volte per qualsiasi donna. Per questi e molti altri motivi, le femministe russe e coloro che condividono i valori femministi devono prendere una posizione forte contro questa guerra scatenata dalla leadership del nostro Paese”.