La nonviolenza come disciplina di studio e come metodologia pratica
di risoluzione dei conflitti è “ideata” da Gandhi nel corso della sua lunga vita e viene applicata direttamente e in forma sistematica nel
conflitto che oppone l’India all’Inghilterra durante la I° e la II°
guerra mondiale.
Alla fine di questo conflitto la nonviolenza risulterà vincente e porterà l’India a conquistare l’indipendenza dal dominio inglese.
Ovviamente la nonviolenza ha radici più antiche, ma il primo che ne
fece un principio e una teoria di vita, oltre che una prassi di
azione, fu appunto Gandhi.
E’ per questo motivo che la riflessione inizia da Gandhi.
Per Gandhi il rapporto con la nonviolenza è legato all’individuo e
allo sviluppo della sua coscienza.
Egli propone due concetti basilari:
a) AHIMSA, non fare del male agli altri;
b) SATYAGRAHA, aderenza alla verità.
Il non fare del male agli altri e l’aderenza alla verità impongono un
forte lavoro basato sulla persona e sulla sua capacità di crescere su
queste cose e di resistere difronte alle spinte incoerenti del
contesto in cui si vive.
Egli però non impone una regola, ma indica un percorso individuale
per giungere alla nonviolenza, percorso che può e deve essere
condiviso con altri.
Forse il “vero obiettivo” non è neanche quello di essere nonviolenti,
ma piuttosto amici della nonviolenza e anche rispetto alla
nonviolenza lo scopo si concentra nel ridurre ai minimi termini
possibili la presenza della violenza nell’agire umano e nelle
attività umane.
La violenza va intesa nel suo significato più ampio, per cui non è
solo quella della guerra o delle armi, ma ogni atto che comporta
distruzione, oppressione, costrizione, verso cose, animali, persone.
C’è quindi spazio per tutti per migliorare e migliorarsi nell’azione
nonviolenta. (1)
Di seguito brevemente vengono elencati una serie di punti per attuare
un’azione nonviolenta:
1) la lotta nonviolenta diventa legittima solo dopo che tutti gli
altri mezzi leciti sono stati messi alla prova
2) non bisogna allargare l’obiettivo della lotta e non iniziare la
lotta con i mezzi più radicali (c’è una scala graduale che prevede
di partire col mezzo a minore impatto per la controparte per poi
crescere in determinazione se questo non sortisce effetto)
3) bisogna sempre mettersi “nei panni dell’altro” per capire le
motivazioni che portano la controparte al conflitto. Non tanto con lo
scopo di meglio saperlo contrastare, ma con l’obiettivo di riuscire a
trovare punti di intesa con la controparte
4) bisogna sempre ricercare un compromesso, in modo che entrambe le
parti trovino soddisfazione dalla risoluzione del conflitto. La
modalità da ricercare non è quella del IO VINCO-TU PERDI, ma IO
VINCO-TU VINCI
5) non si può però mai fare compromessi sul “cuore” del conflitto o
su principi che ne stanno alla base. Questo punto, quindi, richiede
una grande capacità di analisi e di scelta politica rispetto alle
cose che sono “cuore” o “principi”
6) la nonviolenza deve essere intesa come rispetto della dignità
della controparte e non solo della sua vita,
7) anche le cose materiali vanno rispettate. In ogni caso se si
decide di ricorrere al boicottaggio e poi al sabotaggio, l’obiettivo
dell’azione deve essere mirato e non deve comportare pericolo per
nessuno (se non per gli affari economici o politici della
controparte),
8) bisogna sempre evitare la clandestinità e i segreti. L’azione
nonviolenta deve essere pubblica, senza segreti o doppi fini. La
controparte deve conoscere bene cosa vogliamo
9) bisogna essere creativi e fantasiosi. Mai lasciare la mossa alla
controparte, agire per primi in modo da costringere l’altro a
“rincorrerci” sul nostro terreno. Più l’azione sarà innovativa,
condotta in forme fantasiose e aggreganti, più la controparte sarà in
difficoltà
10) bisogna sempre predisporre un “programma costruttivo”, cioè una
serie di cose o di realizzazioni che si vogliono fare in sostituzione
delle cose che si contesta. Da parte di chi agisce una modalità nonviolenta vi è sempre l’onere di presentare una proposta credibile e realizzabile delle cose che si vogliono fare
11) è necessario ricordarsi e sapere che la nonviolenza, vissuta solo
come una tecnica d’azione, non garantisce sulla bontà del fine. Si
possono agire le metodologie nonviolente anche per scopi non giusti o
non legittimi.

Elementi della nonviolenza
Gli elementi della nonviolenza sono sostanzialmente rappresentati dai
suoi principi.
L’elemento cardine è però costituito dalla relazione cioè da
quell’insieme di collegamenti, connessioni, stati emotivi, ecc. che
si sviluppano fra due o più soggetti, sia quando questi sono persone
singole, sia quando si ha a che fare con realtà complesse come
società o nazioni.
Possibilità di rendere la relazione “ponte” fra le due parti in conflitto, “ponte” che non giudica e non stabilisce chi ha ragione o torto, ma che facilita la comunicazione e la comprensione fra le parti.
Il terzo elemento è dato dall’azione, cioè dalla capacità di attuare
in pratica i principi e la relazione.
La nonviolenza può essere intesa come:
– uno stile di vita (apertura all’esistenza, alla libertà, allo
sviluppo di tutti; opposizione all’oppressione, alla distruzione.
Resistenza attiva. Un modo di essere e di vivere i rapporti con gli altri che prima di acquisire un valore come azione sociale -esterna a noi- deve penetrare nelle nostre coscienze ed essere parte di noi);
o come:
– una scelta pragmatica per risolvere i conflitti ( si può vedere
nella nonviolenza un metodo efficace che dà più risultati, o meno
danni, dell’azione violenta. In questo caso il “minimo” richiesto è
il rispetto dei due capisaldi della NONVIOLENZA -non usare violenza
fisica e non offendere la dignità dell’altro- per tutta la durata del
conflitto).
Nel primo caso il tipo di approccio è più legato alla filosofia
gandhiana, nel secondo caso si può identificare con gli apporti degli
studiosi occidentali.
Nell’approccio occidentale invece il punto centrale riguarda
l’analisi per ottenere e mantenere il potere.
Queste due dimensioni sono integrabili anche se noi ci soffermeremo
soprattutto sulla seconda.

Il potere
Tuttavia, per fare ciò è necessario prima di tutto chiarire che cosa
intendiamo con il termine POTERE.
Per potere si intende la possibilità di dirigere persone, contare su
risorse umane e materiali, disporre di un apparato di coercizione e
di una burocrazia.
Il potere si basa sulla collaborazione di un vasto numero di gruppi,
istituzioni, persone ecc.
Esso dipende dalle SANZIONI come strumento per imporre o ripristinare
l’obbedienza e dissuadere dalla disobbedienza nei confronti dei
governanti. Le fonti del potere, cioè quegli elementi che danno riconoscimento e alimento al potere sono:
1) l’autorità,
2) le risorse umane,
3) la disponibilità di capacità e conoscenze,
4) fattori indefinibili come le ideologie, le tradizioni culturali/religiose ecc.
5) le risorse materiali,
6) le sanzioni.

La SANZIONE è importante perché fa scattare l’elemento psicologico
della PAURA e la paura può bloccare ogni tipo di volontà e di azione.
Il potere per esistere, oltre alle fonti, deve appoggiarsi
sull’obbedienza. Fattori dell’obbedienza sono:
1) le informazioni,
2) la paura delle sanzioni e delle ritorsioni,
3) l’obbligo morale che ognuno di noi sente verso una legge, una
norma o un’autorità riconosciuta,
4) l’interesse personale di chi obbedisce,
5) l’identificazione psicologica col governante,
6) l’esistenza di zone di indifferenza per cui determinate situazioni
ci lasciano “neutrali” perché, apparentemente, non ci riguardano o
coinvolgono;
7) la mancanza di fiducia in sé stessi e di una forte volontà,
8) la tendenza ad evitare qualsiasi responsabilità,
9) l’abitudine, che consolida tutti gli altri punti già menzionati.
L’obbedienza è sicuramente un elemento determinante se legato
all’autorità.
In un interessante saggio di Jacques Semelin (2) viene descritto un
esperimento che, aldilà di giudizi morali sull’autorità – che può
essere buona o cattiva -, esamina le conseguenze del rapporto
autoritario fra gli uomini, per mostrare come l’obbedienza
all’autorità possa essere all’origine della distruttività umana.
Lo psicologo Stanley Milgram dimostrò questa tesi attraverso una
serie di rigorosi esperimenti di laboratorio descritti nel suo libro
(3).
La violenza nasce da un rapporto costrittivo che “imprigiona”
l’individuo normale e lo trascina, a dispetto della sua coscienza
morale, verso forme di violenza a lui stesso inimmaginabili. Scrive
Milgram: “Coloro che hanno somministrato gli elettroshocks, non
l’hanno fatto per soddisfare tendenze particolarmente aggressive, ma
costretti moralmente dagli obblighi che pensavano di avere, in quanto
soggetti dell’esperimento. Ed è questo forse l’insegnamento
fondamentale di tutto lo studio: persone assolutamente normali,
affatto prive di ostilità, possono diventare gli agenti di un atroce
processo distruttivo, attenendosi semplicemente ai compiti che sono
stati loro affidati”.
La pressione dell’autorità che in quel momento viene rappresentata
dallo sperimentatore (che vestiva un camice bianco) provoca nel
soggetto un profondo conflitto verificabile dall’accelerazione del
battito cardiaco, da un’abbondante sudorazione. Poi, a poco a poco,
la tensione effettiva si risolve, con la diminuzione dell’attenzione
volta alla vittima e l’aumento dell’attenzione per lo sperimentatore
ed i suoi apparecchi. Sono frequenti osservazioni del tipo: “Bene, se
lei si assume tutta la responsabilità …” che comprovano una lenta,
ma costante, presa di distanza dalla vittima per identificarsi con il
“capo” dell’esperimento e la volontà di sentirsi IRRESPONSABILE delle
proprie azioni e di quello che si sta facendo, scaricando sull’autorità il peso di queste responsabilità.
La teoria che sta alla base di un approccio che analizza gli effetti
dell’obbedienza ritiene che i governi dipendano molto dalla
disponibilità della gente ad obbedire e che, con azioni nonviolente
ben organizzate e con precisi obiettivi, si può influenzare
pesantemente ogni tipo di potere costituito e, in casi estremi,
ridurlo all’impotenza.

Cosa può fare la nonviolenza
Può diventare uno strumento per:
– ottenere nuove cose: leggi più “giuste”, libertà, più diritti
civili ed umani, impedire azioni ritenute riprovevoli, spingere
governi, aziende, società o gruppi verso certe scelte;
– per difendere cose esistenti: leggi ritenute valide, istituzioni
democratiche, conquiste civili, tradizioni e cultura, territori,
persone, realtà associative ecc.
I suoi strumenti di lotta sono i mezzi di lotta nonviolenti quali la
non collaborazione, la disobbedienza civile, il boicottaggio, il
sabotaggio, il programma costruttivo ed alternativo e tante piccole
azioni, tecniche e modalità.
In un famoso libro di Gene Sharp (2) sono presentate ben 198
possibili risposte ed azioni nonviolente da mettere in atto (non collaborazione con chi governa; disobbedienza civile; boicottaggio sociale, economico, politico; controinformazioni; obiezione fiscale, lavorativa; ecc.).

Esempi storici
Segnalo un breve elenco cronologico di lotte, azioni, movimenti che
sono stati basati, talvolta anche inconsapevolmente, su metodologie
nonviolente:
– lotta di liberazione dell’India da parte del movimento guidato da
Gandhi;
– parte della resistenza danese e norvegese all’invasione nazista;
– molti esempi della resistenza italiana alla caduta del fascismo nel
’43 (ricerche fatte su Roma, Napoli, Bergamo, Forlì, ecc.);
– la lotta per i diritti civili dei neri guidata da Martin L. King;
– le lotte per i diritti civili e sindacali portate avanti con César
Chavez;
– la resistenza all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle
forze dell’ex Patto di Varsavia nel 1968;
– lotta dei movimenti pacifisti europei contro l’installazione da
parte del governo USA dei missili atomici in risposta al riarmo
dell’URSS;
– inizio della Campagna di disobbedienza civile di massa contro la
parte di tasse destinata al bilancio della Difesa italiano (obiezione
di coscienza alle spese militari). È una forma di lotta diffusa anche
in altri Paesi;
– la caduta del dittatore Marcos nelle Filippine, 1986;
– lotta contro il nucleare e le centrali nucleari in Italia culminata
nel 1987 col referendum vinto dagli antinuclearisti (1986 gravissimo
incidente di Cernobyl);
– boicottaggio organizzato su scala mondiale delle banche coinvolte
con il regime razzista del Sud Africa. Campagna poi conclusasi per i
profondi cambiamenti intervenuti in quel Paese, tali da portare
Nelson Mandela, avvocato di colore in prigione da 25 anni, alla guida
della Nazione dopo libere elezioni;
– simulazione di difesa popolare nonviolenta che coinvolse l’intero
comune di Boves in Italia;
– predisposizione e studio da parte di organismi statali o
istituzionali di modelli di difesa popolare nonviolenta in Olanda,
Austria, Australia;
– caduta dei regimi comunisti dell’Est. Tutti, tranne la Romania,
senza l’utilizzo preordinato della violenza, 1989;
– separazione di Estonia, Lituania e Lettonia con uso prevalente di
azioni nonviolente;
– resistenza vittoriosa al colpo di stato in URSS contro Gorbaciov e
le sue riforme, 1991;
– iniziativa, ripetuta per diversi anni, contro la presenza del
Salone Navale Bellico a Genova. Alla fine, il Salone non fu più
organizzato a Genova;
– iniziative pacifiste nei territori della ex-Jugoslavia organizzate
principalmente dai Beati i Costruttori di Pace di Padova, da cui poi
nacque l’idea dei Corpi Civili di Pace Europei proposti già dal 1994
dal parlamentare europeo Alexander Langer. La prima marcia si svolse
nel dicembre 1992 e portò 500 pacifisti a Sarajevo; la seconda
nell’agosto del 1993, denominata Mir Sada, coinvolse 2.000 persone,
ma non giunse a Sarajevo, solo a Prozor e a Mostar.

Conclusioni
La NONVIOLENZA per dispiegarsi ha bisogno che alla base ci sia un
grosso lavoro organizzativo, di formazione e di addestramento.
Bisogna coinvolgere nell’azione nonviolenta un numero elevato di
persone (non solo uomini, perché tutti possono praticare la
nonviolenza), infatti mentre per la violenza basta il singolo, se non
6
“poche unità” per la nonviolenza serve la partecipazione di
tantissimi/e.
Sono quindi necessari mezzi, uomini, risorse economiche per poter
sperimentare questi metodi.

(Raffaele Barbiero, Centro per la pace di Forlì)

(1)= “Teoria e pratica della nonviolenza”, di Giuliano Pontara, ed.
Einaudi, Torino 1973.
(2)= “Politica dell’azione nonviolenta” di Gene Sharp, vol. II
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986.
(3)= “Obbedienza all’autorità” di Stanley Milgram,ed. Bompiani,
Milano 1975.
– “Addestramento alla nonviolenza”, di Alberto L’Abate (a cura di),
edizioni Satyagraha, Torino, 1985.
– Beati i costruttori di pace (BCP), Passo…Passo…Anch’io a
Sarajevo, Messaggero di Padova, PD 1993.
EU Commission concerning ECPC: Feasibility Study on the
Establishment of a European Civil Peace Corps. Final report,
29.11.2005, Ohain: Channel Research COWI-B6S,
www.channelresearch.com
“Handbook for nonviolent campaign”, published by War Resister’s
International, 2011.
“La piramide rovesciata” di Brian Martin, prefazione di Eugenio
Melandri, editore La Meridiana, Molfetta (Bari), 1990.
“Manuale per l’azione diretta nonviolenta” di Charles C. Wolker,
ed. del Movimento Nonviolento, 1982. “Percorsi di formazione alla nonviolenza. Viaggi in training
(1983-1991)”, prefazione di Alberto L’Abate, di autori vari
(E.Euli, A.Soriga, P.G. Sechi, S.P. Crespellani); editrice
Satyagraha, Torino, 1992.
“Resistenza nonviolenta a Forlì” di Raffaele Barbiero, ed. La
Meridiana, Molfetta (Bari) 1992, rieditato e modificato nel
2015, Edizioni Risvegli, Carta Canta soc.coop. Forlì.
“Working with conflict. Skills and strategies for action”,
autori vari (S.Fisher, D.I.Abdi, J.Ludin, R.Smith, Sue Williams,
Stive Williams), editore Zed Books ltd, London UK,2007.
https://www.nonviolenti.org
www.difesacivilenonviolenta.org
www.nonviolencetraining.org
https://www.icanw.org (proibizione delle armi nucleari)
https://forlicentropace.wixite.com