L’impegno contro il Covid-19 non dovrebbe far dimenticare l’emergenza malaria, che in Africa continua a uccidere centinaia di migliaia di persone ogni anno, né penalizzare l’aiuto verso i piu’ vulnerabili, a partire dalle persone con disabilità: a sottolinearlo è padre Furaha Aggrey Ntasamaye, responsabile di Caritas dell’arcidiocesi di Mbeya.
L’intervista con l’agenzia Dire si tiene in questa città della Tanzania sud-occidentale, in una valle a circa 1800 metri sul livello del mare, non lontana dai confini con Zambia e con Malawi. La regione è punteggiata di laghi, dal Rukwa al Nyasa, e anche per questo la malaria resta endemica.
Secondo padre Ntasamaye, a capo del dipartimento di Caritas per gli Aiuti umanitari e l’emergenza, “negli ultimi due anni i dirigenti mondiali si sono concentrati sul Covid-19 trascurando di investire nel contrasto ad altre patologie, come l’aids e le malattie legate all’acqua, compresa la febbre tifoide”.
Stando alle stime aggregate dalla piattaforma Our World in Data, in Tanzania finora i decessi per i quali è stato accertato un collegamento con il nuovo coronavirus sono stati 840, molti di meno rispetto alla media mondiale o a quelli registrati in Paesi con una popolazione equivalente e un reddito pro capite piu’ alto, come l’Italia, dove i morti sono stati almeno 165mila. “In Africa ci sono tantissimi giovani e questo sembra aver reso le conseguenze del Covid-19 meno drammatiche” dice il sacerdote, soffermandosi ancora sulle caratteristiche demografiche della Tanzania: “Qui il 70 per cento degli abitanti ha tra i 12 e i 25 anni e l’età media non supera i 18”.
Secondo padre Ntasamaye, sia il governo nazionale che i donatori internazionali dovrebbero investire di piu’ nel contrasto a malattie come la malaria e l’aids. Anche qui i dati aiutano a capire. Secondo il Fondo dell’Onu per l’infanzia (Unicef), nel 2019 i tanzaniani affetti dal virus dell’hiv all’origine della sindrome da immunodeficienza acquisita erano ancora un milione e 700mila nonostante nell’arco di dieci anni i decessi legati alla patologia si fossero quasi dimezzati, passando da 52mila a 27mila.
Poi c’è la malaria, più letale in termini assoluti. Solo nel 2020 nel mondo ha ucciso oltre 627mila persone, nel 96 per cento dei casi africane. In Tanzania le regioni a rischio sono diverse: dal Lago Nyasa alla costa dell’Oceano Indiano, sempre nel 2020, i morti sono stati almeno 2.569. “Come Caritas stiamo cercando di fare il massimo per educare le comunità alla prevenzione della malaria” sottolinea padre Ntasamaye. Poi allarga il discorso all’assistenza necessaria in generale: “Credo”, sottolinea, “che con maggiori investimenti da parte del governo e dei donatori si potrebbero garantire nuovi servizi a beneficio dei piu’ vulnerabili, in particolare le persone con disabilità”.
Non manca molto al tramonto e il sacerdote cammina lungo un filare di fagioli, in lontananza spighe di granturco e “parachichi”, gli alberi di avocado. Nella direzione opposta si vedono il centro sanitario di Iyunga, proprietà dell’arcidiocesi, e due edifici in costruzione. “Il primo servirà per le terapie post-intensive e post-traumatiche a supporto dell’ospedale pubblico”, spiega padre Ntasamiye, “mentre il secondo diventerà una clinica per persone colpite da epilessia o da malnutrizione, patologie differenti tra loro, entrambe troppo a lungo neglette”.
Le nuove strutture sono previste dal progetto Simama, una parola che in swahili significa “in piedi” e nel concreto cure e dignità riconosciute anche ai più svantaggiati. L’impegno è portato avanti dall’arcidiocesi dal 2013, insieme con un’organizzazione non governativa italiana, Comunità solidali nel mondo. “I nostri partner stanno facendo molto” sottolinea il responsabile di Caritas. “Insieme con noi amplieranno l’impegno sia nei servizi di riabilitazione, attraverso professionisti del settore, sia nel lavoro di sensibilizzazione e culturale, con operatori di comunità, perché nessuno sia più escluso”.