Il portavoce della protesta: «Non vogliamo morire qui, vogliamo protezione ed essere ricollocati»
“Basta perdersi… basta sofferenza”: è una frase scritta su uno degli striscioni sollevati dai rifugiati in un sit-in aperto, davanti all’edificio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in Tunisia. Quattro mesi fa i rifugiati si sono accalcati sul marciapiede appendendo striscioni sulle mura dell’edificio di UNHCR per chiedere il loro reinsediamento in altri Paesi.
I manifestanti rifiutano che l’agenzia dell’ONU abbia tagliato le attività in loro supporto, costringendoli a uscire dai centri di accoglienza contro la loro volontà e a sopravvivere senza alcun tipo di assistenza. La scena è dominata da immagini di bambini posti in mezzo alla strada, bruciati dal sole durante il giorno e morsi dal freddo e dalla fame di notte, che mangiano pane e latte che non basta a riempire le loro pance, in attesa di aiuto o di una soluzione che non si sa se e quando arriverà in un paese come la Tunisia in grave crisi economica e sociale.
I rifugiati ritengono che sfuggire ai pericoli della guerra nei loro paesi li abbia messi di fronte a nuovi rischi, non ultimi l’esclusione, l’emarginazione e il disprezzo in Tunisia. Recentemente è inoltre aumentato anche il rischio di perdere la vita.
Il pasto: latte e pane – foto dal sit-in dei rifugiati a Tunisi
In attesa della morte
Abd al-Rahman racconta con dolore la storia del suo amico rifugiato Mohammed Faraj Momin (da Tuareg) e dell’incidente davanti al sit-in: giovedì 19 maggio un’auto lo ha investito, colpendolo alla testa e alla colonna vertebrale. Mohammed è stato portato immediatamente in ospedale, è entrato in coma fino a martedì 24 maggio quando è morto lasciandosi alle spalle i suoi sogni e la sua famiglia.
Abdel Rahman aggiunge: «Non vogliamo morire qui e non ce lo aspettavamo, vogliamo solo sicurezza e protezione. Vogliamo coloro che ascoltano e rispondono alle nostre richieste, vogliamo essere evacuati in Paesi che preservano il nostro diritto alla vita e alla dignità».
Abdelrahman Bilal è un membro tuareg apolide della Libia, è fuggito dall’inferno della guerra e del caos. E’ arrivato in Tunisia in cerca di migliorare il proprio status, ma lì si è scontrato con l’oscurità della situazione e l’insicurezza, rimanendo senza casa. L’uomo di 50 anni dorme sul marciapiede in mezzo a una grande folla. Sua moglie e i suoi nove figli sono emigrati quattro anni fa dalla regione libica di Sabha in Tunisia.
Accusati di diffondere falsità
Il Ministero degli Affari Esteri e dell’Immigrazione e dei Tunisini all’estero ha condannato le denunce di un certo numero di manifestanti che sostengono di essere stati sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani, e ha rifiutato di offendere la Tunisia per fare pressione nei confronti di UNHCR in Tunisia per evacuare o reinsediare i manifestanti in un altro Paese.
Il Ministero ha rilasciato una prima dichiarazione giovedì 28 aprile, confermando i suoi contatti con l’ufficio di UNHCR e con tutte le parti interessate tunisine al fine di seguire la situazione e il sit-in dei rifugiati e richiedenti asilo. Ha scritto che “è inaccettabile utilizzare il clima di libertà concesso ai rifugiati e ai richiedenti asilo, visto che alcuni di loro distorcono con ogni mezzo l’immagine della Tunisia, mentre il Paese li accoglie dopo che le loro vite sono state salvate quando le loro barche sono affondate in mare, e dopo che gli sono stati forniti tutti gli alloggi disponibili, la sussistenza e la protezione in collaborazione con UNHCR“.
Il ministero ha poi aggiunto che la concessione dello status di rifugiato o richiedente asilo non garantisce l’immunità per eventuali abusi dei manifestanti, e che il rispetto delle leggi e della legislazione nazionale è un dovere di tutti, sottolineando che la situazione sanitaria rimane fragile per via dell’epidemia di Covid-19, addirittura sostenendo che il proseguo del sit-in minaccia la situazione sanitaria generale del Paese.
Ha infine sottolineato che la Tunisia tiene fede ai suoi impegni internazionali per proteggere i rifugiati e i richiedenti asilo nel rispetto della sua sovranità nazionale, della sicurezza nazionale e sanitaria, e della pace sociale.
Dialogo continuo? Nessuna soluzione
L’UNHCR in più di un’occasione ha dichiarato che “le porte del dialogo sono aperte”, e che nonostante la mancanza di risorse, continua a seguire 400 rifugiati nei suoi centri di accoglienza. Si è dichiarata anche pronta a consentire il ritorno dei rifugiati che erano già stati espulsi dai centri di Gerges. Il suo impegno – sostiene – “è quello di fornire rifugio per le persone più vulnerabili, come donne e bambini” e ha affermato che “la richiesta di reinsediamento si è confermata irrealistica e non può essere raggiunta al momento, perché la Tunisia secondo i dati internazionali è considerata un Paese sicuro”.
Ma queste “soluzioni” non hanno soddisfatto i manifestanti, che affermano di aver perso fiducia nell’UNHCR dopo essere stati abbandonati e lasciati in strada di fronte ad un destino sconosciuto senza la minima protezione. Dicono che il loro caso non ha altra soluzione che lo spostamento in un altro Paese dove il rispetto dei diritti dei rifugiati è salvaguardato.
Negli ultimi anni, la Tunisia è diventata un punto di raccolta e transito per molti migranti che provengono dalla Libia o dall’Africa sub-sahariana che desiderano raggiungere l’Europa, e per quelli che vengono fermati in mare dalla Guardia costiera tunisina.
Secondo le informazioni del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES), un’organizzazione non governativa attiva in tutto il Paese, la Guardia costiera tunisina ha intercettato 25.657 migranti nel 2021 mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo, quasi il doppio dei 13.466 registrati nel 2020.