UNHCR trasferisce 160 manifestanti di Rue du Lac Biwa, escludendo quasi 100 persone che continuano a vivere per strada: la protesta non si ferma.

160 manifestanti trasferiti in nuovi dormitori UNHCR, esclusi gli altri 100

Tunisi – Lunedì 6 giugno, circa 160 rifugiati e richiedenti asilo sono stati trasferiti in dormitori situati a una ventina di chilometri dal centro di Tunisi (localitá di Er-Roued). Dopo cinque mesi di proteste e vita per la strada, uomini, donne e bambini esausti, in condizioni di salute precarie, hanno infine accettato la soluzione di compromesso avanzata da UNHCR. Il trasferimento è avvenuto a seguito dell’ennesima promessa di apertura ed esame accelerato delle pratiche per l’asilo. Queste erano state sospese, insieme ad altre attività dell’Agenzia, a seguito dell’inizio delle proteste.

La promessa di riaprire le richieste d’asilo ha contribuito a convincere quanti l’hanno ricevuta, ad accettare la proposta dei dormitori. In ogni caso, crea divisioni artificiali fra i manifestanti. Secondo questi ultimi, le pressioni di UNHCR sul gruppo di Zarzis si sarebbero spinte al punto da intimare ai rappresentanti che nuove partecipazioni avrebbero condizionato negativamente le loro pratiche di asilo.

La gestione di UNHCR ha dunque da subito cercato di impedire l’espansione del movimento, nei fatti escludendo quanti si sono uniti in seguito, per esempio a Tunisi, dalla possibilità di registrarsi per la domanda d’asilo, nonché dall’accesso a servizi fondamentali come quello medico.

I funzionari UNHCR avrebbero detto ai manifestanti che le 100 persone rimaste al sit-in sono tutte senza documentima le nostre testimonianze dimostrano il contrario. Alcune delle occupanti ancora in Rue du Lac erano presenti già nel nucleo di rifugiati e richiedenti asilo formatosi a Zarzis. La maggior parte dei “superstiti”, secondo i nostri informatori, è dotata almeno della carta per richiedente asilo, risultando a tutti gli effetti una persona sotto tutela di UNHCR. Tra di loro, anche il caso di un minore non accompagnato con una diagnosi di sifilide.

Alcuni rappresentanti UNHCR, stando alle dichiarazioni dei manifestanti, hanno detto che le persone rimaste al sit-in sono giovani e forti, e possono dunque “sbrigarsela da sole. Una prospettiva che ignora, dopo mesi di vita per strada, le condizioni di salute fortemente deteriorate e l’urgente bisogno di assistenza di molte di loro.

In ogni caso, quindi, non sono stati trasferiti nei foyer né tutti i manifestanti provenienti da Zarzis e Médenine, né tutti gli individui vulnerabili o sotto la responsabilità di UNHCR. La soluzione proposta da UNHCR sembra quindi avere il solo obiettivo di far terminare il prima possibile le proteste, che danneggiano l’immagine dell’Agenzia delle Nazioni Unite.

Alcuni rappresentanti della commissione dei manifestanti hanno rifiutato il posto nei dormitori, per sé e per le loro famiglie, scegliendo di restare al sit-in.

Piove al sit-in di rifugiati e richiedenti asilo contro l’UNHCR in Rue du Lac Biwa, Tunisi. Credits: Biggi, Lomaglio, Ramello

I nuovi dormitori di Er Roued: sovraffollati e senza letti

Le condizioni di vita di chi è stato accolto nei dormitori UNHCR non sono però migliori. Prima di tutto, Er Roued é una zona di mare, isolata dal centro della città. Le strutture che l’UNHCR ha destinato ai manifestanti sono due palazzine già sovraffollate, con in tutto una dozzina fra bi-locali e tri-locali per circa 150 persone. Si trovano tra due corsi d’acqua, infestati dalle zanzare: siamo state fuori pochi minuti e lo abbiamo constatato noi stesse.

Negli appartamenti non ci sono letti, e solo in alcuni sono stati ultimati i lavori per mettere in funzione le cucine: i manifestanti dormono per terra, alcuni ancora sulle coperte che utilizzavano a Rue du Lac; alcune famiglie devono usare i fornelletti a gas per cucinare. Non hanno ancora disfatto i fagotti di averi che si sono portate dietro dal sit-in: le strutture offerte da UNHCR non gli permettono ancora di sistemarsi.

Per di più, il vicinato ha reagito all’arrivo dei manifestanti con un atteggiamento xenofobo. Stando a quanto riportato dalle nostre fonti, molti avrebbero chiesto loro di stare attenti a non contaminare la zona con le loro malattie. Quale sarebbe la reazione dell’opinione pubblica europea se a ricevere questo trattamento fossero le persone in fuga dalla guerra in Ucraina, invece che da quella del Sudan, della Libia, dell’Eritrea, o della Repubblica Centrafricana?

UNHCR avrebbe inoltre comunicato ai manifestanti che ricaverà – da un magazzino adiacente alle strutture – delle cellette in cui svolgere i colloqui personali per esaminare le possibilità per il ricollocamento. Di nuovo, tuttavia, specificando di non avere nessun potere di persuasione rispetto agli Stati sicuri (su tutti, quelli dell’UE). Sono loro, infatti, a dover rendere disponibili delle “quote” di persone da accogliere.

Lo spostamento nei foyer proseguirà, secondo le nostre fonti, con nuovi trasferimenti di manifestanti sotto tutela di UNHCR ogni 5 giorni. UNHCR potrebbe dunque ambire a una progressiva normalizzazione della loro permanenza in Tunisia: non saranno eccezionali, ma gli appartamenti sono meglio della strada.

Un leader delle proteste sullo sfondo del lago di Tunisi. Credits: F.D.

Categorizzare le persone per discriminarle, per non proteggerle 

Troviamo necessario riflettere sulla pericolosità delle categorie alla base del regime migratorio internazionale, troppo spesso considerate innocue, ma che sono invece capaci di fare la differenza fra la cura e l’abbandono alla morte. Indicativo in proposito, è il fatto che al sit-in coesistono persone della stessa nazionalità, con storie di persecuzione analoghe, e che per mere contingenze sono state ora riconosciute come rifugiate, ora segregate nella categoria criminalizzata di migranti economiche.

Che queste categorie non descrivano la complessità delle esperienze umane è dimostrato dalla ferma convinzione dei manifestanti a considerarsi parte di uno stesso movimento, a prescindere dalle storie e dalle motivazioni di ciascuno. Al sit-in ci si supporta e si condivide ciò che si ha, senza alcun tipo di distinzione burocratica. Tutte le persone sono lì per richiedere l’evacuazione da un Paese che li espone al rischio quotidiano e impedisce loro la ricerca di una vita migliore.

Venerdì 10 giugno rappresentanti UNHCR sono tornati a dialogare con i manifestanti rimasti sul luogo delle proteste. Le nostre fonti riferiscono che è stato loro richiesto di abbandonare il sit-in in cambio della promessa di esamina dei dossier da lunedì 13 giugno.

L’unica soluzione accettabile per i manifestanti, lo ripetiamo, rimane però l’evacuazione.

I manifestanti ricaricano i loro telefoni in prese disponibile nei pressi del sit-in. Credits: Biggi, Lomaglio, Ramello

Déjà-vu: la Tunisia come imbuto dei movimenti dall’Africa all’Europa

Questa situazione ha il sapore amaro di un déjà-vu. Nel 2013, infatti, UNHCR aveva trasferito in strutture di accoglienza non ufficiali – come quelle di Er Roued, sprovviste di locali per l’educazione o per le cure mediche di base – centinaia di profughi a cui non era stato accordato il ricollocamento. Si trattava di un altro gruppo di persone manifestanti, che avevano resistito per 3 anni protestando al campo di Chouchaistituito da UNHCR nel 2011. Si trattava di un campo nel deserto – nella zona frontaliera tra Tunisia e Libia – pensato per accogliere temporaneamente le migliaia di profughi in fuga dalla guerra in Libia.

Nonostante tutti gli ospiti del campo avessero le stesse necessità di ricollocamento in Paesi sicuri, solo alcune centinaia avevano avuto la fortuna di vedere accolte le proprie richieste. Gli altri erano rimasti nel deserto ad aspettare dal 2014 (anno di chiusura ufficiale del campo) al 2017 (anno del definitivo sgombero). Dopo tre anni, UNHCR le aveva trasferite in una struttura nel quartiere di La Marsa, nella periferia nord di Tunisi. Da allora, alcuni hanno provato a farsi una vita in Tunisia, nonostante la disoccupazione crescente e l’assenza di prospettive, dovuta a una crisi economica cronica. La stessa crisi che, aggravata dagli anni della pandemia, spinge ogni anno migliaia degli stessi cittadini tunisini a raggiungere illegalmente le coste italiane.

Ma la maggior parte dei migranti subsahariani, trasferiti nel 2017 da Choucha a La Marsa, stanno ancora aspettando. Il regime migratorio contemporaneo ha trasformato la loro vita in un infinito e improduttivo tempo dell’attesa. Altri, comunque, nel corso degli anni hanno provato ad attraversare il mare, e persino a tornare in Libia: entrambe soluzioni che, anche oggi, i manifestanti in Rue du Lac tengono fortemente in considerazione. Lo dice bene uno dei nostri informatori rimasti al Lac: «E’ un peccato che non ci ascoltino, perché se non ci danno l’evacuazione per vie legali, molte persone non avranno altra scelta che tornare nel Mediterraneo. E prima della fine dell’anno sentiremo che almeno dieci di noi sono morti in mare».

I manifestanti in protesta cantano “Tunisia is not safe! We need Evacuation!” Credits: Biggi, Lomaglio, Ramello.

In memoria di Mohamed Faraj Momin

Nel frattempo, il funerale di Mohamed Faraj Momin ha avuto luogo il 31 maggio al cimitero di Jellaz, a Tunisi. Nonostante le difficoltà di buona parte dei manifestanti a pagarsi un mezzo di trasporto, il raccoglimento per la sepoltura del compagno di protesta è stato un passaggio necessario.

Dopo che i familiari della vittima hanno ricevuto i documenti ufficiali dell’ospedale Charles Nicolle di Tunisi, quasi una settimana dopo la morte, tutte le persone presenti al sit-in si sono strette attorno a loro.

Di Riccardo Biggi, Valentina Lomaglio e Luca Ramello

 

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