Sono oltre 10 mila i lavoratori agricoli migranti che vivono in luoghi di privazione dei diritti e sfruttamento, in alloggi di fortuna privi di servizi essenziali e di servizi per l’integrazione. A certificarlo ora sono i Comuni con il Rapporto “Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare”, pubblicato qualche giorno fa dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dall’Associazione nazionale dei Comuni Italiani. Qui l’indagine completa. Un Rapporto realizzato dalla Fondazione Cittalia dell’ANCI e che ha coinvolto metà dei Comuni italiani, i quali hanno fornito informazioni su: presenze, flussi, caratteristiche dei lavoratori agricoli migranti, sistemazioni abitative (dalle abitazioni private e strutture, temporanee o stabili, attivate da soggetti pubblici o privati, fino agli insediamenti informali o spontanei non autorizzati), servizi a disposizione degli ospiti e interventi per l’inserimento abitativo promossi dai Comuni stessi.
Sono 608 i Comuni dove è stata rilevata la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agroalimentare, con il Sud dove si registra il più alto numero di Comuni che dichiara la presenza di lavoratori migranti occupati nel settore agroalimentare, sia stagionali che di lunga durata. Nella maggioranza dei casi (78,8%) i lavoratori migranti occupati nel settore agricolo vivono in abitazioni private e in poco meno del 22% dei Comuni sono invece presenti strutture abitative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati e/o insediamenti informali. Per quanto riguarda le strutture alloggiative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati- dove secondo le stime trovano alloggio circa 7 mila lavoratori agricoli migranti, in prevalenza rifugiati/richiedenti asilo– si rileva che nella maggioranza dei casi si tratta di abitazioni riconducibili ad appartamenti della rete SAI/SIPROIMI/SPRAR (44%), ai Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) (10,3%) o agli appartamenti messi a disposizione da realtà o associazioni del Terzo Settore e del volontariato (14%). Si tratta, quindi, prevalentemente di strutture stabili/permanenti localizzate in aree urbane e gestite dal Terzo settore, solo una minima parte (circa il 20%) degli alloggi formali ha carattere temporaneo e ospita, quindi, i lavoratori stagionali che si spostano in base al ciclo delle colture. La maggior parte delle strutture dichiarate, infatti, è presente sul territorio comunale da più di 4 anni (73,7%) e –trattandosi prevalentemente di strutture abitative stabili- nella quasi totalità dei casi sono presenti i principali servizi essenziali (acqua potabile, energia elettrica, servizi igienici ecc.) e risulta altresì presente nelle vicinanze degli alloggi una buona copertura di collegamenti di mezzi pubblici (77%).
Anche molti degli insediamenti informali (il 41,3% dei casi) hanno comunque un carattere permanente. La maggior parte degli insediamenti informali mappati, infatti, è presente sul territorio comunale da parecchi anni: ben 11 insediamenti esistono da più di 20 anni, 7 sono presenti da oltre 10 anni e 16 da oltre 7 anni. Tuttavia, pur avendo un carattere prevalentemente stabile, nella maggior parte dei casi in tali insediamenti- dove sono state stimate oltre 10mila persone– non sono presenti servizi essenziali e le condizioni di vita risultano estremamente precarie. Molto scarsa (meno del 30% dei casi) risulta essere, per esempio, la presenza nelle vicinanze degli insediamenti informali di servizi pubblici di trasporto, una situazione che favorisce il ricorso ai caporali o a trasporti inadeguati. Ma a risultare praticamente assenti in tali insediamenti sono gli interventi sociosanitari e, più in generale, tutti i servizi finalizzati a favorire l’integrazione dei migranti. Al contrario, negli insediamenti formali sono generalmente presenti tutti i servizi finalizzati a favorire l’integrazione dei migranti, oltre agli interventi socio-sanitari. In oltre il 70% delle strutture alloggiative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati -dove si riscontra la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agro-alimentare- sono attivi servizi di mediazione culturale e assistenza sociale, così come servizi e interventi legati al mondo del lavoro (formazione professionale, rappresentanza sindacale, lotta al lavoro nero/caporalato), seppur in maniera meno diffusa. Negli insediamenti informali è maggiormente presente anche la “piaga del caporalato” (nel 25,8% dei casi), che in quelli formali si ferma al 10,4%. E negli insediamenti informali si potrebbe anche ipotizzare la presenza di casi di caporalato sommerso e non rilevato.
Quali sono gli interventi attivati dai comuni?
Negli ultimi 3 anni, 54 dei 608 Comuni che hanno dichiarato la presenza di migranti impiegati nel settore agro-alimentare hanno realizzato interventi riconducibili alla riqualificazione di immobili pre-esistenti o all’edilizia residenziale pubblica e in futuro si prevede di poter contare su oltre 1000 spazi presenti su questi territori comunali destinabili ai migranti che lavorano nell’agro-alimentare, che potrebbero arrivare ad ospitare complessivamente più di 6 mila persone (14 Comuni hanno dichiarato anche di aver elaborato almeno uno studio di fattibilità volto alla realizzazione di alloggi destinati ad ospitare lavoratori migranti e 28 hanno espresso la volontà di elaborare a breve tali progetti di fattibilità). Si tratta di poche “buone pratiche” e di qualche confortevole speranza. Troppo poco se si considera che a partire dal 2020 le condizioni di vita e di lavoro della popolazione migrante sono ulteriormente peggiorate e che il fenomeno dello sfruttamento lavorativo –che pur riguarda diversi settori (trasporti, logistica, costruzioni, turismo e servizi di cura)- è particolarmente accentuato nel comparto agricolo, ove l’intera filiera agroalimentare, dalla produzione alla raccolta, dalla trasformazione alla vendita dei prodotti agricoli, appare compromessa e non priva in qualche caso anche di collusione con le mafie locali. Come ha da tempo sottolineato l’Osservatorio Placido Rizzotto, l’aumento vertiginoso del lavoro straniero in agricoltura richiede la definizione di una strategia di governance multisettoriale, che sappia porre attenzione, ad esempio, alle esigenze e ai fabbisogni specifici di servizi sui territori quali trasporti, alloggi, servizi scolastici e sanitari (servizi che nelle aree rurali spesso sono purtroppo già carenti per la stessa popolazione locale). E che sappia soprattutto affermare la legalità nel settore agroalimentare. Per fare ciò occorre chiamare in causa attivamente i cittadini e promuove una sinergia tra sindacalisti, rappresentanti della Magistratura e delle forze dell’Ordine, del mondo accademico, dell’associazionismo e del terzo settore e, in particolare, delle nostre Città. Intanto, sta per compiere vent’anni la legge n.189 del 30 luglio 2002, la cosiddetta Bossi-Fini. E anche questa legislatura s’è conclusa senza la necessaria riforma del TU Immigrazione e senza il superamento di norme che hanno condannato per anni tante persone all’irregolarità, alla marginalità e al conseguente sfruttamento.