In questi giorni di generale indignazione per il ricatto turco a Svezia e Finlandia, subito dagli USA e dalla UE – ingresso nella NATO in cambio dell’estradizione dei rifugiati curdi – merita di essere ricordato il libro curato dall’Istituto Andrea Wolf e pubblicato quest’anno dalla casa editrice Tamu di Napoli. Si tratta della traduzione dallo spagnolo, ad opera del comitato italiano di Jineolojî, di numerose interviste a militanti del PKK e di altre organizzazioni di sole donne legate al partito. Viene ricostruita la genealogia femminile in Medio Oriente, dalle divinità Inanna e Ishtar e dal matriarcato originario fino alla rivoluzione in Rojava, insieme con il percorso di liberazione intrapreso oltre il capitalismo e il patriarcato. L’interrogativo più inquietante suscitato dalla lettura, almeno per chi crede di dover praticare la nonviolenza, riguarda la possibilità di conciliare il “compagnerismo”, il confederalismo democratico, l’amore per la natura e il rispetto per gli altri e per la sacralità della vita con la scelta della guerriglia.
La guerra è di per sé un atto di morte, ma la guerriglia la affronta dal punto di vista della legittima difesa, per la tutela della vita libera. L’esercito delle donne si è formato come critica agli eserciti degli stati-nazione. L’uso della violenza per imporre il potere e il dominio non è permesso. La guerra non è un obiettivo, ma uno strumento che si è costrette a usare a causa dei duri attacchi del nemico (pp.197-198).
Il percorso e l’obiettivo degli eserciti di donne devono consistere nell’eliminazione delle ragioni che portano agli eserciti (p.201). Forse questa non è una risposta, ma, come ogni riflessione filosofica autentica, una considerazione che pone, e si pone, domande.
Per capire un po’ di più, è necessario ricostruire la storia di questo movimento.
Il Kurdistan è diviso in quattro aree: Bakur (in Turchia), Rojava (in Siria), Başur (in Iraq) e Rojhilat (in Iran).
Il PKK (partito comunista curdo) fu fondato da Abdullah Ocalan in Turchia nel 1978 e, ispirandosi ai principii del marxismo-leninismo-maoismo, aspirava alla creazione di uno Stato socialista curdo. Già nel 1979 cominciarono in Turchia gli arresti e le torture di uomini e donne vicini al partito, spesso studenti.
Il 21 marzo 1982, capodanno musulmano in Mesopotamia, ma anche, per i Curdi, festa del newroz, ricordo di una vittoria contro gli Assiri nel 612 a.C., il primo martire per la libertà si dà fuoco in prigione. La festa si celebra con grandi falò e la prima martire per fuoco donna, Zekiye Alkan, studentessa in medicina, il 21 marzo del 1990 lascerà scritto: poiché siamo figlie del fuoco e del sole, vinceremo le tenebre con il fuoco dei nostri corpi.
Già dal 1983 si moltiplicano nelle carceri e fuori i primi scioperi della fame di massa a tempo indeterminato.
Dal 1980 comunisti curdi sono presenti nei campi palestinesi del Libano e dal 1981 il PKK sceglie di passare alla lotta armata, ma i primi scontri con l’esercito turco, il secondo più grande nella NATO, avvengono sulle montagne del Bakur nel 1984. Sono presenti anche le donne.
Il 16 marzo 1988, durante la guerra Iran-Iraq, Saddam Hussein impiega armi chimiche contro un villaggio curdo: è il massacro di Halabja.
Nel 1992 scoppia la cosiddetta “guerra del Sud”: secondo un piano elaborato di concerto con la NATO, la Turchia si avvale dei peshmerga (militanti armati di gruppi ostili al PKK) oltre che di proprie truppe per distruggere i suoi avversari. Insurrezioni e repressioni si succedono in tutti gli anni ’90. Nel ’94 – e il fatto fece molto scalpore nel mondo – la deputata Leyla Zana, giurò in curdo davanti al Parlamento, arrestata e rieletta ripeté il suo gesto.
Dal 27 maggio 1995, le “madri del sabato” si riuniscono ogni settimana davanti al liceo Galatasaray di Istanbul con le foto delle parenti scomparse (torturate in carcere, uccise e mai ritrovate, o che si sono date fuoco in prigione o morte sfinite dallo sciopero della fame) e chiedono giustizia sull’esempio delle madri argentine di Plaza De Majo.
Nel frattempo matura all’interno del movimento una crescente consapevolezza femminile, una specificità nella lotta contro il patriarcato, quale espressione precipua del capitalismo, consapevolezza che Ocalan (Rêber Apo, la cara guida) incoraggia. Viene elaborata la “teoria della rosa”: la bellezza e la fragilità della rosa, cioè della donna, si circonda di spine, per l’autodifesa. Nell’esercito misto spesso le compagne avevano subito l’irrisione, le vessazioni, l’isolamento da parte dei maschi. Nel dicembre 1993 nasce l’esercito delle donne e fioriscono anche associazioni autonome di donne. Si fanno coraggio a vicenda, poiché devono affrontare compiti tradizionalmente maschili, ai quali per secoli sono state educate a sentirsi inadeguate. È così che pian piano valorizzano la propria differenza di genere.
I principi del Movimento di liberazione delle Donne del Kurdistan sono cinque: 1) protezione della terra (il territorio, ma anche il pianeta tutto); 2) libero pensiero e libera volontà (contro il pensiero unico) ossia essere se stesse; 3) organizzazione intesa come condivisione e solidarietà (opposta alla competitività del capitalismo e del patriarcato), con forme di autogestione e democrazia consiliare diretta; 4) lotta infinita (senza separazione fra lotta e vita); 5) essere fonte di amore e di bellezza (vedere la vita come sacra e assicurare giustizia a ogni persona). Questa è la particolare coloritura che hevalti, il “compagnerismo”, assume nelle relazioni fra donne. Ma secondo Ocalan occorre anche una trasformazione interiore degli uomini, “da oppressori a liberi”, anch’essi dovranno lavorare a conoscersi per cambiare.
Dal 1998 Ocalan è fuggiasco e poi catturato e trasferito nell’isola di Imrali; d’ora in poi saranno i suoi scritti dal carcere lo sprone del movimento.
Dopo il crollo dell’URSS e l’involuzione capitalistica della Cina, nel 1999, viene elaborato un nuovo paradigma, socialista sì ma non più marxista-leninista o maoista, che supera il concetto ottocentesco di Stato-nazione segnato da confini e barriere, il verticismo del partito-avanguardia delle masse, la giustificazione della guerra. L’obiettivo è sempre un Kurdistan libero e socialista, ma entro una prospettiva di confederalismo democratico (l’espressione viene coniata nel 2005) in tutto il Medio Oriente.
Tre sono i punti fondamentali: 1) il superamento dello Stato identificato con le frontiere e il potere, che impone una sola lingua e una sola religione e, in alternativa, una rete di comunità autogestite; 2) il ricorso alla violenza solo come autodifesa; 3) un nuovo modello di organizzazione rivoluzionaria consiliare e circolare. Questo paradigma, dunque, consiste nella democrazia diretta, nella prospettiva ecologica con cui guardare anche alla società, nella liberazione della donna, nel confederalismo plurietnico o interetnico e interreligioso.
Nel 2011 si arricchisce di nuove prospettive che rivoluzionano anche il privato di compagne e compagni: “vita libera insieme”. Si intende cambiare le relazioni gerarchiche all’interno della famiglia e nei rapporti sociali; fondare l’amore sulla bellezza etica e politica, che si incontra nel “compagnerismo”, nella terra, nei valori della lotta rivoluzionaria.
Quando, nel 2014, l’esercito delle donne (e non solo) inizia a combattere l’ISIS (o Daesh) a Kobane, in Siria, realizza quella che è nota come la rivoluzione del Rojava: sperimenta come autodeterminazione e autogestione funzionino meglio dell’autoritarismo statale. Viene sottoscritta una Carta del Contratto Sociale che coordina le Regioni Democratiche Autonome di Afrin, Jazira e Kobane, abitate da curdi arabi assiri caldei turcomanni armeni e ceceni, ciascuna delle quali consiste di diverse komînan o piccole comuni autogovernate attraverso consigli, via via allargati ad aree superiori.
E così siamo arrivati ad oggi e alla chiusa del libro:
Di fronte al sessismo gridiamo Donna,
in faccia alla morte mettiamo la Vita
e di fronte alla schiavitù lottiamo per la Libertà
Donna, Vita, Libertà
Jin, Jiyan, Azadi.