Quasi 40 anni di convivenza con l’attività mineraria a Espinar, Perù, hanno avuto un grave impatto sulle popolazioni native K’ana che vivono nei pressi della miniera, come la perdita dei loro territori e degli usi e costumi. L’espansione e la crescita dell’attività mineraria hanno occupato territori comunali che sono stati frammentati dalla vendita individuale di terreni, un fatto che è aggravato dall’espansione del progetto Coroccohuayco, che coinvolge direttamente tre comunità andine di lingua quechua, senza che siano state chiarite le cause della contaminazione nell’area e senza un processo di consultazione preventiva libera e informata nelle comunità interessate da questo nuovo progetto.
A Espinar ci sono 13 comunità che vivono intorno all’area mineraria e i loro diritti sono stati violati per anni. A quali diritti ci riferiamo? Il diritto a bere acqua non contaminata, cioè il diritto alla salute: ricordiamo che due studi del CENSOPAS (MINSA) e uno studio di Amnesty International mostrano lo stesso risultato: persone con metalli pesanti nel sangue, ingeriti attraverso l’acqua (cadmio, arsenico, manganese, mercurio e piombo).
Ma stiamo anche parlando del diritto delle 13 comunità di Espinar a preservare la propria cultura, diritto che in questi territori viene violato quando la compagnia mineraria svizzera Glencore acquista ettari individualmente dagli abitanti senza rispettare il processo stabilito internamente dalle comunità stesse. Ricordiamo che si tratta di comunità ancestrali, riconosciute come tali dal Ministero della Cultura e che il loro stile di vita si basa sul rapporto con la terra. A Espinar ci sono stati troppi stati di emergenza e la popolazione non è più in grado di vivere in un ambiente sano. Questa è la realtà.
Ceferino Kanna Achiri è un membro della comunità Huisa. La sua salute e quella della sua famiglia (moglie e due figli) è stata compromessa dalla presenza di metalli pesanti nel corpo. “I miei figli sono contaminati, hanno una quantità quattro volte superiore alla norma di arsenico, piombo, cadmio e mercurio nel sangue. Io e mia moglie siamo stati colpiti ai reni, soffriamo sempre di mal di testa, questa è la nostra preoccupazione”. Ceferino si rammarica anche del fatto che tutti i sentieri ancestrali che esistevano sono stati chiusi: “Prima le comunità vivevano in armonia, ma poi l’azienda ha comprato metà della comunità e ci ha separati e isolati”. Ciò che più gli dispiace è che le visite che si svolgevano tra le comunità nell’area di influenza della compagnia mineraria sono state interrotte. “Quando è arrivata la compagnia mineraria, le persone sono cambiate”, dice, riferendosi al potere del denaro, visto che alcuni abitanti del villaggio sono stati convinti a vendere le loro proprietà. Improvvisamente, nel bel mezzo della comunità, alcuni ettari hanno iniziato ad appartenere alla Glencore, che ne ha immediatamente preso possesso. Successivamente ha chiuso la strada e, secondo Ceferino, “recintato” l’area impedendo che si possa raggiungere la loro cappella e il cimitero. “L’intero bacino del fiume Cañipía è contaminato da metalli pesanti”, conclude.
Esmeralda Larota Umasi, membro dell’Organizzazione delle Donne Difensori del Territorio e della Cultura K’ana, ha 36 anni e subisce gli effetti della contaminazione nel suo corpo. “Mi fa male vedere che anche la mia famiglia si lamenta di dolori e nessuno si prende cura di noi. Anche i miei genitori sono malati”. Nella sua comunità, che è una delle più colpite dall’inquinamento, non esiste a tutt’oggi un programma sanitario completo per fornire alla popolazione cure mediche e quindi una migliore qualità di vita.
“Non abbiamo nemmeno l’acqua pulita, dobbiamo continuare a bere la stessa acqua, anche se sappiamo che è contaminata”, dice, stanca ma senza arrendersi. Esmeralda si è recata nell’Unione Europea per raccontare ai parlamentari europei la realtà delle persone che vivono intorno alle attività estrattive, che hanno visto violati i loro diritti umani fondamentali, come il diritto all’acqua, alla salute e a un ambiente sano. Esmeralda ha portato la voce di coloro che sono stati colpiti dai metalli pesanti a Espinar, per sensibilizzare e far votare i parlamentari europei a favore della legge sulla dovuta diligenza nell’Unione Europea, che potrebbe cambiare la situazione di impunità in cui vivono.
“Difendiamo la vita, la salute e i diritti delle comunità native, viviamo in questa comunità fin dai nostri nonni, abbiamo vissuto coltivando, seminando, raccogliendo nelle nostre fattorie, allevando il nostro bestiame. Un tempo vivevamo del nostro bestiame e delle nostre fattorie, era sostenibile, ma oggi abbiamo metalli pesanti nel sangue e questo deteriora la nostra salute giorno dopo giorno. Né lo Stato né l’azienda ci prestano attenzione, vorrei che fossero responsabili e più umani. Anche noi siamo esseri umani, abbiamo il diritto di vivere una vita sana”, si lamenta.
Agripina Magaño Cuti è una donna indigena di 71 anni, originaria di Ayllu Huisa, vive nel settore di Ccatautaña e ha nostalgia dei tempi in cui, come dice lei, viveva tranquilla, aveva 25 mucche, 25 lama e 70 pecore e con tutto questo lavorava. Ci racconta che ha comprato la sua terra e costruito la sua casa, dice che l’acqua “era cristallina” e che sverminava i suoi animali solo due volte l’anno. “Allevare animali ci ha dato benessere” aggiunge, raccontando che con questi stessi animali ha potuto viaggiare tra le comunità per vendere i suoi prodotti e comprarne altri di cui aveva bisogno. Agripina ricorda con emozione che un tempo coltivava quinoa, patate e cañihua. Oggi però, i fumi e le polveri della miniera, che producono inquinamento ambientale, hanno messo fine alla sua prosperità, poiché il nastro trasportatore del minerale della società Glencore si trova a soli 400 metri dalla sua casa, dal suo campo, dove ancora coltiva per il proprio consumo.
È una donna anziana che ama la sua terra. “Lavoro in modo artigianale con la chaquitaclla (strumento agricolo tradizionale degli altopiani andini, N.d.T.), con piccone e pala”. Non c’è più Ayni, ossia reciprocità, non c’è nulla. Per lei c’è un responsabile: “Da quando la miniera di Antapaccay è stata aperta su questa collina, tutta la produzione è diminuita”. Agripina dice che vuole parlare con l’azienda, ma non riceve risposte. I suoi quattro figli sono nati a Ccatautaña e quando morirà, spera che l’azienda risponda a loro e ai suoi nipoti. Il suo fardello sono anche i metalli pesanti presenti nel suo corpo; nel 2013 le sono stati consegnati i risultati in una busta senza che nessuno le spiegasse che aveva arsenico, cadmio, piombo e mercurio. Purtroppo, come gli altri colpiti dalla contaminazione, non ha ricevuto alcuna assistenza medica.
Questa è la realtà delle comunità indigene di Espinar, che non sono certo contrarie all’estrazione mineraria, ma ritengono che sia stata commessa una grande ingiustizia nei loro confronti, soprattutto a causa dell’abbandono e dell’incostanza dello Stato peruviano, che non ha lasciato loro altra scelta se non quella di opporsi alle compagnie minerarie.
Pertanto, la campagna di Espinar non può aspettare, cerca giustizia per la popolazione. In questo contesto, sostiene che la proposta di legge dell’Unione Europea sul Dovere di Diligenza debba includere clausole che garantiscano i diritti della popolazione nelle aree in cui vengono effettuati gli investimenti europei. La campagna mira a garantire che le cause dell’inquinamento e dei danni alla salute umana siano identificate con trasparenza e rigore scientifico, che sia garantito a tutta la popolazione l’accesso all’acqua potabile e a servizi sanitari specializzati con attenzione alle appartenenze di genere e culturali. Chiede inoltre la definizione di meccanismi vincolanti per il rispetto del quadro internazionale dei diritti umani, come la consultazione preventiva, libera e informata, secondo gli standard internazionali, rispettando la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e la dichiarazione universale delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni indigene. Tutto questo nell’ambito della responsabilità extraterritoriale delle imprese con capitale nell’Unione Europea o che fatturano in essa, come nel caso della società svizzera Glencore che opera da nove anni nella miniera di Espinar.
La campagna “Espinar Non Può Aspettare” è promossa da tre reti europee: EU-LAT Network, CIDSE e PEP, che riuniscono più di 60 organizzazioni di solidarietà internazionale provenienti da 15 Paesi, oltre a 50 organizzazioni peruviane appartenenti a quattro piattaforme nazionali: Plataforma de la Sociedad Civil sobre Empresas y Derechos Humanos, Red Muqui, Campaña Nacional Permanente Defensores y Defensoras e Mesa Técnica de Salud Ambiental y Humana. E’ inoltre sostenuta da organizzazioni peruviane quali: CooperAcción, Derechos Humanos sin Fronteras, Instituto de Defensa Legal-IDL e Perú Equidad.
Video. Espinar chiede giustizia sociale e ambientale.
Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid.
Revisione di Anna Polo.