La venuta in Italia di Jean-Luc Mélenchon a sostegno di Unione Popolare ha prodotto, come era ovvio, grande entusiasmo tra i militanti impegnati nella campagna elettorale. C’è tuttavia una domanda che non possiamo non farci. Mélenchon si è rammaricato di non essere potuto venire come presidente della Repubblica francese, ma si è augurato di poterlo fare presto come primo ministro. Ha detto queste cose a militanti, già felici di essere riusciti a raccogliere le firme per presentare le liste, ed ora impegnati a superare il fatidico 3% per potere mettere piede in parlamento. E’ chiaro che qualcosa non torna. Cosa giustifica questo abisso tra Italia e Francia?
Senza pretesa di risolvere l’enigma, proviamo a darci qualche abbozzo di spiegazione.
Intanto va detto che il ceto politico e le strutture organizzative della sinistra antagonista in Italia sono fortemente divise (poi proveremo a dire perché). Questo significa che il possibile bacino elettorale di una sinistra unita, anche considerando solo militanti e simpatizzanti, non è neppure facilmente definibile. Penso che in questa potenziale area politica vadano inseriti oltre agli elettori di Unione Popolare e di Sinistra Italiana, anche una quota di circa il 25%, 30% di sostenitori dei 5stelle, più un numero, che ritengo purtroppo significativo, di compagni che il giorno delle elezioni preferiranno restare a casa. (cosa che per altro anche io ho fatto a volte in passato).
Stando ai miei calcoli (del tutto approssimativi e personali) una forza unitaria e credibile della sinistra dovrebbe potere contare in partenza su una base elettorale valutabile tra l’otto e il dieci per cento dei votanti. Senza contare che una tale presenza politica e parlamentare innescherebbe un meccanismo fortemente attrattivo per gli astensionisti delusi dalla politica, e per i tanti che per mancanza di alternative, e magari turandosi il naso, votano Partito Democratico.
Le divisioni a sinistra sono parte della nostra storia e sull’argomento non possiamo spendere, in questa sede, troppe parole. Riferendoci solo ai tempi presenti credo facciano gioco il ribellismo antisistema in versione “minestrone” dei grillini, (che tuttavia non è solo causa ma anche effetto della crisi della sinistra), e per altro verso la deleteria eredità del Partito Democratico, oggi espressione organica del dominio capitalista occidentale, che invece da molti nostalgicamente è ancora visto come possibile alleato di un fronte progressista contro le destre.
In base a queste considerazioni va sottolineato come Unione Popolare è quella che ha dimostrato una totale estraneità coi contenuti del PD, e forte spirito unitario, cominciando a mettere insieme Rifondazione, PaP, De.Ma e il gruppo di Manifesta. Il primo obiettivo, come sappiamo, è raggiungere il famoso 3% ed entrare in Parlamento.
Ma questo è solo l’aperitivo, perché a mio modesto avviso, anche avere qualche parlamentare non serve assolutamente a nulla se non si pone la vera questione, che riguarda la possibilità di dare una casa comune alla sinistra antagonista, verso quel 8/10 per cento che ipotizzavamo, avviando un processo costituente dal basso verso una ampia coalizione sociale di movimenti, organizzazioni e strutture di resistenza, opposizione e lotta.
Di questo si riparlerà dopo il 25 settembre. Ma sin da ora devono essere chiare alcune cose (da non prendere alla lettera, bensì da valutare nel loro significato democratico):
- il processo deve potere coinvolgere anche organizzazioni e compagni che hanno fatto diverse scelte elettorali;
- la struttura deve fondarsi sul momento assembleare locale, e nazionale;
- gli organi direttivi (o esecutivi) vanno valutati nelle assemblee periodiche (con possibili rotazioni);
- nessun accordo dall’alto e nessuna rendita di posizione per chi è, o è stato dirigente, parlamentare o altro.
Naturalmente si può mantenere l’attuale logica di alleanza tra partiti e strutture diverse. Ma questa ipotesi, sul lungo periodo la giudico perdente (e per me personalmente poco interessante).