Leonard Peltier ha 78 anni. Li ha compiuti il 12 settembre, da prigioniero politico, come gli accade da ormai quasi mezzo secolo, vale a dire da quando, nel febbraio del 1976, fu arrestato in Canada e poi estradato negli Stati Uniti in seguito all’accusa di omicidio. Un’accusa suffragata da prove tanto poco attendibili che, in seguito, il governo canadese protestò formalmente con gli Stati Uniti. Peltier è di ascendenza Ojibwa Lakota, gli indiani del Nordamerica che tutti conoscono meglio con il nome di Sioux, ed è stato tra i fondatori dell’American Indian Movement. È a causa di questo, di quella indomabile resistenza al potere e alla violenza delle “giacche blu”, che divenne il perfetto capro espiatorio di un vicenda politica farsesca quanto miserabile che, pur suscitando l’indignazione in mezzo mondo di intere generazioni di persone – da Robert De Niro e Bruce Springsteen alla gente della Val di Susa che gli ha intitolato il presidio di San Didero -, si trascina da una vita con una ferocia che, con il solo peso della sua enormità, fa annegare nella vergogna ogni autorità istituzionale degli Usa che abbia il coraggio di salire su un palco e parlare d’un “Paese libero”.
Leonard Peltier è chiuso in carcere da ormai 46 anni ed è l’emblema dei prigionieri politici e delle minoranze indigene negli Stati uniti. Di ascendenza Ojibwa Lakota, è tra i fondatori dell’Aim (American Indian Movement) e simbolo di una resistenza che dura da più di 500 anni. La sua vicenda giudiziaria è ormai arcinota, raccontata in svariati libri, film e anche in molti articoli dedicatigli da questo giornale (il manifesto, ndr).
Nei primi 10 giorni di ottobre di quest’anno è previsto l’arrivo in Europa di una delegazione dell’International Leonard Peltier Defense Committee, storico comitato che da tempo si batte per la sua causa, composta da Jean Roach, Lona Knight e Carol Gokee, che saranno presenti anche in diverse città italiane, a partire da Milano. Il ciclo delle manifestazioni di sostegno vedrà il suo culmine a Ginevra, in un incontro con le Nazioni unite.
Per chi non la conoscesse, la storia di Peltier vale la pena di essere ricordata. Tutto ebbe inizio il 26 giugno 1975, a Pine Ridge, territorio degli Oglala Lakota, una delle Riserve indiane più grandi e povere degli Stati uniti. Erano tempi di forti tensioni e scontri, di continue aggressioni alle comunità indigene, soprattutto da parte dei “Goons”, bande armate formate in parte da nativi stessi, comprati dal governo statunitense per reprimere le lotte di rivendicazione dell’Aim.
Quel giorno, senza alcun preavviso, irruppe nella riserva un’automobile priva di targa con due uomini a bordo che diedero inizio a un conflitto armato. In seguito si scoprirà che erano agenti dell’Fbi e che il pretesto per l’irruzione fosse la ricerca di un indiano che avrebbe rubato un paio di stivali. Ovviamente erano palesi bugie e, più probabilmente, l’irruzione fu una sorta di provocazione che portò sul teatro dello scontro, nel giro di pochi minuti, centinaia di agenti.
La sparatoria che ne seguì fu caotica, lasciando a terra i due agenti provocatori e un nativo. Sul nativo nessuno si prese la briga di indagare, come avveniva regolarmente anche per la gran quantità di indigeni uccisi in quegli anni, ma per i due agenti qualcuno doveva pagarla cara. In quanto attivista dell’Aim, il trentunenne Leonard Peltier divenne così il capro espiatorio perfetto.
In una successiva intervista Peltier rivelò: “Sono stato minacciato con le pistole in faccia quando ho cercato di filmare un blocco stradale di una squadra Goon; in un’altra occasione sono stato sbattuto contro un muro dai Goon, che tendevano a percepire l’intero corpo della stampa come simpatizzante dell’Aim. I freni della mia macchina furono tagliati e, in un’occasione, un fucile ad alta potenza fece un buco in un’automobile su cui viaggiavo. Ma le mie esperienze impallidiscono in confronto ai pestaggi, le bombe incendiarie e le sparatorie in auto durante quel periodo, dove almeno 28 omicidi di indiani rimangono ancora irrisolti e la tribù Oglala Sioux ha ripetutamente presentato petizioni al governo federale per riaprire questi casi”.
L’arresto di Peltier avvenne in Canada, il 6 febbraio successivo, ma l’estradizione fu ottenuta con prove così fasulle che, in seguito, il governo canadese protestò formalmente col governo statunitense. Peltier venne condannato nel 1976 a due ergastoli, dopo un processo segnato da discriminazione e pregiudizio, dove venne accusato dell’omicidio dei due agenti Ronald A. Williams e Jack R. Coler. Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Ojibwa Lakota era segnato. Il processo infatti fu una farsa che ricalcò un copione già scritto: la giuria era composta esclusivamente da bianchi.
Nel 2003 i giudici del 10° Circuito dichiararono: “Gran parte del comportamento del governo nella riserva di Pine Ridge su quanto è accaduto a proposito del Signor Peltier è da condannare. Il governo ha trattenuto delle prove ed ha intimidito testimoni. Questi fatti sono incontestabili”.
Centinaia di singoli cittadini, associazioni e comitati in tutto il mondo hanno sostenuto la causa di Peltier, raccogliendo milioni di firme e sottoscrivendo migliaia di appelli. Si sono occupate del suo caso anche personalità come Desmond Tutu, il Dalai Lama, papa Francesco, David Sassoli, istituzioni come il Parlamento europeo, organizzazioni come Amnesty International, artisti come Robert de Niro, Robbie Robertson, Bruce Springsteen e tanti altri. La sua tragica vicenda è stata dettagliatamente raccontata dal regista Michael Apted, nel film documentario del 1998, Incident a Oglala.
In una delle tante lettere scritte dal carcere Peltier denunciava: “Nelle terre indiane e in tutto il mondo ci sono uomini che lottano ogni giorno per la libertà. L’America ha più gente in prigione di ogni altro Paese e il nostro sistema giudiziario è ormai un’industria, non un mezzo per cercare la giustizia”. Alla soglia degli ottant’anni, Peltier è duramente provato e malato. Lo scorso gennaio è anche risultato positivo al Covid, fenomeno molto frequente nelle carceri americane, così la sua salute è diventata ancor più precaria.
In un commovente messaggio spedito ai sostenitori della sua causa, Leonard scrisse: “Ho sacrificato tutti questi anni di vita al mio popolo. Sono stanco. Per anni ho nascosto le mie sofferenze. Ho sorriso quando volevo piangere. Ho riso quando mi sentivo morire. Ho dovuto guardare le fotografie dei miei bambini per vederli crescere. Ho perduto il piacere di stare con gli amici. Ho perduto la gioia di passeggiare nei boschi. Ho perduto la mia libertà. Vi prego, non dimenticate che in tutto il mondo i popoli indigeni sono oppressi. Vi prego, non vi dimenticate di me, domani”.
Fonte: il manifesto