Passione, Calvario, Via Crucis. La coincidenza tra le celebrazioni pasquali e l’ennesima udienza per il rinnovo della detenzione preventiva di Patrick Zaki ha reso necessario ricorrere a quelle parole che sanno di innocenza, dolore e sofferenza per descrivere la situazione nella quale continua a trovarsi lo studente egiziano dell’università di Bologna.
Alla vigilia del quattordicesimo mese dall’arresto, la magistratura egiziana ha detto che quel periodo infinito di tempo non è ancora sufficiente per riconoscere l’innocenza di Patrick, scarcerarlo e riconoscergli il danno subito: cose che sarebbero la norma in uno stato di diritto e che invece sono una rarissima eccezione in Egitto.
Ieri l’eccezione ha favorito Islam Orabi, detenuto politico arrestato il 26 dicembre 2020, il cui rilascio era stato disposto già il 16 febbraio: quegli altri 50 giorni in più trascorsi in carcere sono stati un monito punitivo.
Il supplizio di Patrick Zaki invece continua, mentre le preoccupazioni di vecchia data per le sue condizioni di salute psicofisiche si sono trasformate in angoscia dopo che l’avvocata, dopo averlo visto in udienza, le ha descritte come “pessime”.
Il governo italiano dovrebbe finalmente cogliere l’urgenza della situazione. C’è una cosa che potrebbe fare subito: convocare l’ambasciatore egiziano a Roma, esprimendogli la propria protesta per la continua detenzione senza processo di Patrick Zaki e spiegando che la sua storia la sente come una storia italiana. Non c’è bisogno di aspettare i tempi lunghi e di superare il percorso tortuoso della cittadinanza italiana per farlo.