Ha attratto l’attenzione dei media internazionali – e alimentato dibattito e speculazioni tra gli osservatori e le cancellerie – la notizia di un “documento” che allude al superamento degli Accordi di Dayton e prospetta la ridefinizione dell’assetto complessivo della regione, i Balcani Occidentali, che continuano a essere al centro di interessi e di tensioni di vasta portata.
Proprio per questo, qualche elemento di contesto e qualche dato di circostanza non sarebbero male. Quello che ha attirato l’attenzione dei media e ha suscitato interrogativi vecchi e nuovi è un cosiddetto “non-paper”: un documento non ufficiale, il cui autore non è noto, ma sulla cui identità molto si sta speculando, da qualche parte vi si è fatto riferimento come di un documento di provenienza slovena – che in ogni caso non ha alcuna veste ufficiale e non rappresenta alcuna posizione ufficiale – mentre da qualche altra parte si è ventilata l’ipotesi che una o più parti del documento possano essere di provenienza ungherese, anche qui, evidentemente, senza poter fornire alcuna indicazione in più e senza poter risalire in alcun modo ad alcuna fonte più o meno ufficiale.
Come i mittenti, così i destinatari sono avvolti nell’opacità, dal momento che si dice che il testo stia circolando in ambienti di Bruxelles, ma intanto è stato riferito che il documento possa essere arrivato, in qualche modo, all’attenzione dell’ufficio di Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo, al di fuori di canali ufficiali. In effetti, l’attenzione che ha senso riservare al documento/non-documento è che, dando il testo per esistente, inviato e ricevuto, si tratterebbe di un testo politico-diplomatico non ufficiale attraverso il quale esprimere una visione in merito al futuro della regione.
Non è certo la prima volta che gli analisti e le cancellerie si esercitano in visioni e proiezioni del futuro della regione, immaginando prospettive politico-diplomatiche o esplorando percorsi e strumenti per rilanciare la cooperazione su base regionale. Non è, al tempo stesso, la prima volta che si delineano assetti futuri all’interno della regione, non solo in virtù del percorso di adesione dei Paesi in questione all’Unione Europea, ma anche in relazione alla possibilità di nuovi accordi regionali o di inedite messe in discussione di confini esistenti e di scambi di territori. Non è, in definitiva, certo la prima volta che si discute del futuro degli Stati «incerti», come il Kosovo, o delle prospettive degli Stati «problematici», come la Bosnia definita dagli Accordi di Dayton, periodicamente al centro di un dibattito, peraltro, circa la loro modifica o il loro superamento.
Per un verso, umori e propensioni che puntano un riflettore sulle problematiche e le contraddizioni della regione; per un altro, un esercizio di “diplomazia a tavolino”, in cui osservatori e analisti avanzano proposte e prospettano soluzioni troppo spesso facendo a meno, o dando la fastidiosa impressione di fare troppo spesso a meno, dei diretti interessati, i popoli, e dei quadri di riferimento più significativi, il rispetto dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, la non-ingerenza negli affari interni, il rispetto della integrità territoriale e della sovranità democratica. In questo caso, poi, il documento/non-documento sarebbe addirittura intitolato qualcosa come «Balcani occidentali: la via da seguire»; proverebbe a interrogarsi in generale sulle questioni nazionali non risolte di serbi, albanesi e croati, emerse dopo lo smembramento della Jugoslavia; focalizzerebbe la sua attenzione sulle questioni cruciali ancora irrisolte. Tra queste sarebbero elencate, almeno, le seguenti, già ampiamente note alla diplomazia internazionale: le aporie degli Accordi di Dayton che hanno definito il volto della Bosnia post-bellica a partire, sostanzialmente, dalla situazione che la guerra aveva determinato sul campo; lo stallo diplomatico che riguarda la vicenda del Kosovo che, a sua volta, mette un’ipoteca sulla prospettiva europea tanto del Kosovo quanto della Serbia; l’aumento dell’influenza della Turchia nella regione, soprattutto in Bosnia e Macedonia del Nord. Ma sembra che proponga soluzioni né particolarmente creative, né auspicabilmente originali: in primo luogo, ove confermato sarebbe motivo di allarme, la disarticolazione della Bosnia, con l’annessione, in tutto in parte, della Republika Srpska alla Serbia, con l’annessione alla Croazia o il riconoscimento di una autonomia speciale dei cantoni croati oggi parte, all’interno della Bosnia, della Federazione di Bosnia Erzegovina; infine, con la parte restante della Bosnia quale futuro Stato propriamente bosniaco, una specie di Bosnia minima, una Bosnia per sottrazione. E, di conseguenza, l’unificazione del Kosovo e dell’Albania (il che riecheggia aspetti del vecchio disegno fascista della Grande Albania), un’autonomia speciale per i Serbi del Kosovo (che tuttavia non si trovano solo nel Kosovo del Nord e per i quali esiste già un Accordo del 2013 sempre più lettera morta), e un rilancio, su queste basi, del percorso di avvicinamento della regione all’Unione Europea.
Potrebbe essere poco utile analizzare il testo di un documento che c’è e non c’è, appunto, un documento/non-documento, già variamente smentito; più utile, a questa altezza, evidenziare quanto poco promettente, e viceversa assai minaccioso, possa essere soffermarsi ancora su “soluzioni” basate su compattamenti etnici e separazioni etniche, anziché investire nel rilancio della democrazia e della cooperazione, nel rispetto dei principi di integrità e di non-ingerenza, nel corrispondere ai bisogni e nel rispetto dei diritti, dei popoli e delle persone, di tutti e di tutte, traguardando allora la costruzione di un ambiente che sia effettivamente di «pace positiva», di pace con giustizia sociale.