La Cabilia è una regione montuosa nordafricana. I suoi abitanti la chiamano in Cabilo “Tamurt Idurar” (Paese delle Montagne) o “Tamurt Legyayel” (Paese dei Cabili). Fa parte della catena montuosa dell’Atlante e si trova vicino al Mar Mediterraneo. La Cabilia ha sette divisioni amministrative: Tizi Ouzou, Bejaia (Bgayet), Buira (Tubirett), Bordj Bou Arreridj, Jijel, Boumerdes e Sétif. Occupa un posto molto speciale nel mondo berbero contemporaneo. L’importanza e il dinamismo delle sue élite, il suo ruolo decisivo nello sviluppo della coscienza berbera contemporanea e le rivendicazioni ne fanno a tutti gli effetti una regione chiave del mondo berbero.
Le tendenze attuali in Cabilia saranno indubbiamente decisive per il futuro e per la sopravvivenza stessa dell’identità berbera. È abitata da una popolazione dinamica e pacifica che fa della libertà il valore più sacro della sua esistenza. Terra di tutte le aspirazioni, ha visto molti invasori.
La Cabilia ha una cultura, una lingua, un sistema giuridico e una storia unici e caratteristici. La maggior parte della popolazione cabila è fortemente radicata all’ambiente e attaccata alla sua terra e al suo territorio tradizionale. Spesso, per generazioni, è stata perseguitata e soggiogata, vittima della distruzione della propria cultura, della discriminazione e delle diffuse violazioni dei loro diritti umani. Per secoli ha sofferto del mancato riconoscimento delle sue istituzioni politiche e culturali, e l’integrità della sua cultura è stata danneggiata.
Ciò è stato sostenuto dal persistere di una politica anti-cabila del regime algerino su una popolazione stigmatizzata e sottoposta a politiche statali particolarmente violente.
Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella “Nazione” eppure, dopo l’indipendenza nel 1962, la Cabilia è ingannata da una pseudo-sovranità che crede di detenere proprio perché è “Lo Stato”.
La Cabilia è rimasta una regione a parte, ed è sempre stata considerata una regione ribelle, prima e dopo gli eventi storici: si è opposta ai Romani, agli Arabi, ai Turchi e poi ai Francesi. Nella lotta contro il colonizzatore, speravano in cambio nel riconoscimento della loro specificità all’interno della nazione algerina. L’Algeria socialista non riconobbe la loro lingua, la loro cultura, e nemmeno il ruolo svolto dai loro leader nella guerra per l’indipendenza dell’Algeria. I cabili furono emarginati nei gradi superiori del nuovo potere e i successivi presidenti, Ahmed Ben Bella, Houari Boumediene, Bouteflika e oggi anche Teboune, che guidati dai generali del clan Oujda continuano ad arabizzare e islamizzare questa popolazione.
L’errore è tutto lì. Un errore sostenuto dalla comunità internazionale che vede gli Stati attraverso la definizione data dal diritto internazionale, portando a un’evidente confusione tra lo Stato che riconosce, un collettivo di anime e un guscio vuoto, senz’anima poiché senza nazione e quindi una terra dove la democrazia, non servendo una nazione, serve una manciata di individui costituiti come stato.
Infatti solo l’appartenenza ad una “nazione” genera consapevolezza di un’identità nazionale opponibile allo Stato e alla sua egemonia. Questo è il motivo per cui lo Stato algerino, non avendo costruito nazioni, continua a dominare i popoli che, non costituiti come nazioni, sono etnicamente divisi.
In più, la Cabilia ha subito gli effetti negativi dei processi di sviluppo che minacciano gravemente la sua esistenza. Il consenso libero, preventivo e informato del popolo cabilo su questioni riguardanti le loro terre, il territorio ancestrale e le risorse naturali è stato considerato una condizione essenziale per la realizzazione del loro diritto all’autodeterminazione, la conservazione della loro identità, la cultura e la lingua specifiche, ribadite dall’articolo 3 della Dichiarazione delle Nazioni Unite.
Si noti che lo Statuto delle Nazioni Unite, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici, come anche la Dichiarazione e Programma d’azione di Vienna, affermano l’importanza fondamentale del diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione, diritto in virtù del quale essi determinano liberamente il proprio status politico e il proprio sviluppo economico, sociale e culturale.
Nulla in questa dichiarazione può essere invocato per negare a un qualsivoglia popolo il suo diritto all’autodeterminazione, esercitato in conformità del diritto internazionale.
Il popolo cabilo si trova spesso ad affrontare l’emarginazione e la discriminazione legale nel proprio paese, il che lo rende particolarmente vulnerabile alle violazioni dei diritti umani. Chi difende i diritti del popolo cabilo deve affrontare intimidazioni e violenze, spesso supportate dal regime algerino.
Di fronte alle proteste dell’Hirak (parola araba che significa etimologicamente “movimento”), il governo algerino ha sfruttato questa apparente differenza tra le regioni: oltre a bandire la bandiera berbera, il regime ha anche diffuso numerose voci, accusando la Cabilia di manipolare la protesta. “La campagna anti-rivoluzionaria usa la Cabilia come scusa”.
La ricerca dell’arabità ha avuto come corollario l’islamità. Le autorità algerine hanno sempre fatto affidamento su una politica di arabizzazione in quanto sancisce la legittimità dello Stato di cui l’Islam era depositario. La religione fu quindi usata come strumento per contenere una possibile serie di movimenti secolari e democratici.
Allo stesso tempo il governo algerino ha favorito movimenti estremisti islamici e ha permesso loro di aumentare la propria influenza politica fino a minacciare l’esistenza del popolo cabilo, vittima dell’arabismo e dell’islamismo che non sono altro che maschere di ipocrisia.
Questa lotta è quella della verità contro la menzogna, della nonviolenza contro la violenza, della democrazia contro un regime autoritario, della giustizia contro l’ingiustizia e la privazione della libertà. La resistenza nonviolenta è qui il mezzo privilegiato di lotta a favore dei diritti umani. Il suo scopo generale è di lavorare per maggior giustizia e libertà.
Di Rabah Arkam
Traduzione dall’inglese di Enrica Marchi. Revisione di Thomas Schmid