L’aumentare delle misure di sicurezza impiegate dalla Cina nello Xinjiang riflette la vulnerabilità storica di questo territorio e le preoccupazioni sulla stabilità nazionale. Non sarà un’impresa facile trovare un equilibrio tra questi fattori, le ambizioni oltreconfine e le relazioni internazionali.

Per più di un decennio l’attenzione internazionale si è concentrata sul modo in cui la Cina tratta la popolazione uigura dello Xinjiang. Sebbene Pechino sia sospettosa di tutte le forme di separatismo (di cui le altre preoccupazioni principali sono Hong Kong e il Tibet), qui è di fondamentale importanza mantenere il pugno di ferro. Le ragioni più ovvie per cui la Cina vuole mantenere un caposaldo in questa regione sono: i depositi di risorse naturali; la sua posizione strategica per il progetto della Nuova via della seta (conosciuta anche come “Belt and Road Initiative” in inglese), che comprende la creazione di corridoi economici e commerciali; i legami con la difesa fisica della Cina. Ma l’attrattiva del nazionalismo di matrice islamica e turca nello Xinjiang ha anche messo in luce le difficoltà della Cina nel gestire la stabilità nazionale senza agitare le più ampie sfere islamiche e turche.

Il territorio prevalentemente pianeggiante dello Xinjiang è stato una delle componenti primarie del percorso della storica Via della seta. La geografia di questa regione e la sua prossimità a numerose culture e civilizzazioni euroasiatiche l’ha resa un territorio conteso per secoli, con punti di vista rivaleggianti sulla sua storia e sulle sue caratteristiche culturali. Il nome Xinjiang, per esempio, si traduce in “Nuova Frontiera” o “Nuovo Dominio”, ma i nazionalisti uiguri denominano questa regione Turkestan Orientale. Gli studiosi cinesi postulano che gli uiguri siano discendenti di popolazioni nomadi provenienti dagli attuali territori della Mongolia, e che si siano stabiliti nello Xinjiang durante il IX secolo (affiancandosi ad altri gruppi, tra cui i cinesi han). D’altro canto, gli storici uiguri tendono a sottolineare le loro origini centroasiatiche turche e identificano la loro storica patria nel Turkestan Orientale.

A prescindere dal dibattito storico sulla discendenza degli uiguri, una separata identità mussulmana e turca emerse in alcune parti della popolazione dello Xinjiang durante il XVIII secolo, quando la dinastia cinese Qing riconquistò la regione. Secondo le fonti storiche, la campagna cinese divise la popolazione uigura dagli altri gruppi turchi dell’Asia Centrale, che fu poi controllata dall’impero russo. L’ostilità verso la dominazione cinese, sentita dai mussulmani di svariate provenienze culturali, culminò nella (tra il 1862 e il 1877), in cui i ribelli ricevettero il sostegno dell’impero ottomano e di quello britannico. Nonostante la repressione e la pacificazione della Cina sullo Xinjiang ebbero successo, il sentimento nazionalista crebbe all’interno della popolazione mussulmano-turca; per l’inizio del XX secolo, il termine “uiguri” iniziò a essere usato per descrivere gran parte della popolazione mussulmano-turca della zona del bacino del Tarim.

La caduta della dinastia Qing nel 1912 aprì la strada all’Era cinese dei signori della guerra, con la conseguente guerra civile. I nazionalisti cinesi, i comunisti, i gruppi uiguri, le spedizioni russe/sovietiche, si misero tutti in competizione per controllare lo Xinjiang. Anche se il Partito comunista cinese (o Pcc) conquistò la vittoria nel 1949, l’insurrezione islamica filo-nazionalista del Kuomintang (1950-1958), avvenuta nello Xinjiang e nelle vicine regioni, rimarcò la minaccia di un islam politico nei confronti della nuova e fragile leadership cinese. Inoltre, l’Unione sovietica incoraggiò gli uiguri (e i kazaki che abitavano nello Xinjiang) a ribellarsi per destabilizzare la Cina dopo la separazione sino-sovietica degli anni Sessanta.

Negli anni Novanta a seguito della disgregazione dell’Unione sovietica, la resistenza degli uiguri alla dominazione cinese nello Xinjiang mutò. Il crollo sovietico consentì lo sviluppo di Stati indipendenti turchi nell’Asia Centrale e questo ispirò sentimenti simili tra gli uiguri. Il crescente terrorismo internazionale portò anche al coordinamento delle attività tra i gruppi militanti islamici e turchi all’interno dello Xinjiang e in tutta quell’area geografica. Questi avvenimenti preoccuparono considerevolmente Pechino. Nel 1995 gli uiguri tennero manifestazioni pubbliche contro il dominio cinese nella città di Yining, dopo che «le autorità cinesi [avevano già] aumentato il controllo sull’Islam nello Xinjiang». In risposta a questa situazione, nel 1996 il Pcc emise il Documento n.7 del Comitato centrale del Partito comunista cinese, in cui si affermò che «il separatismo nazionale e l’attività religiosa illegale» avrebbero dovuto essere categorizzate come «principali minacce alla stabilità» del Paese. Successivamente, nel 2014, fu messa in pratica una «Campagna Strike Hard contro il terrorismo violento» nella stessa regione e ulteriori manifestazioni pubbliche furono represse violentemente mentre svariati personaggi politici uiguri furono incarcerati o uccisi.

Tuttavia, la resistenza violenta contro le politiche del Pcc nello Xinjiang ha continuato a crescere durante i primi vent’anni del XXI secolo. Gli accoltellamenti e i bombardamenti sono aumentati; le sommosse a Ürümqi nel 2009 hanno portato alla morte di quasi 200 persone. Per sedare le proteste degli uiguri, le autorità cinesi hanno risposto con durezza e arresti; nel 2017 hanno introdotto ulteriori misure oppressive tra cui «[la detenzione di] svariate centinaia di migliaia di uiguri, kazaki e altri mussulmani in campi di internamento», secondo il New York Times. Lo stato cinese li ha denominati campi di rieducazione. Sorveglianza di massa, posti di blocco e una crescente presenza delle forze dell’ordine nelle regioni uigure hanno messo una forte pressione sulla popolazione locale. Le pratiche di repressione delle norme culturali uigure e di creazione di centri di detenzione, dove più di un milione di uiguri sono stati trattenuti «contro la loro volontà negli scorsi anni», messe in atto dalla Cina, hanno attirato lo sguardo indagatore del mondo. Sono state definite «crimini contro l’umanità e verosimilmente genocidio» da svariati Paesi, tra cui gli Stati Uniti, e dai gruppi per i diritti umani. La Cina continua a restringere l’accesso internazionale a questa regione in preparazione alle Olimpiadi invernali di Pechino nel 2022, ragion per cui alcune nazioni hanno annunciato boicottaggi diplomatici dei Giochi.

Per svariate motivazioni Pechino continua a fare pressione sullo Xinjiang nonostante le proteste internazionali sollevate dall’Occidente e da certe componenti delle sfere islamiche e turche. Lo Xinjiang contiene il 40% del carbone cinese, circa il 20% dei giacimenti petroliferi e le maggiori riserve di gas naturale, e depositi consistenti di materiali edili come marmo e granito. Man mano che l’economia cinese aumenta il proprio fabbisogno energetico, mantenere l’accesso al carbone, al petrolio e al gas dello Xinjiang è di vitale importanza per la sicurezza energetica attuale e futura. Per di più, la posizione geografica di questa regione è una componente essenziale della Nuova via della seta per il collegamento con i mercati economici europei e asiatici.

La conquista di una maggiore autonomia regionale (o una secessione vera e propria) nello Xinjiang non sarebbe di buon auspicio per la Cina, che cerca di dissuadere simili tentativi in tutta la nazione. Hong Kong, il Tibet e anche i movimenti secessionisti meno conosciuti sarebbero incentivati ad accrescere i propri sforzi se gli indipendentisti dello Xinjiang avessero successo. La perdita di questa regione renderebbe la Cina più soggetta a ipotetiche invasioni in futuro. Uno scenario più verosimile e immediato sarebbe rappresentato da sfide all’autorità cinese nelle varie regioni di confine tra cui Aksai Chin, il territorio che fa parte dello Xinjiang e del Tibet e che è violentemente conteso dall’India come parte del distretto di Leh, capoluogo del territorio del Ladakh.

Mentre sono chiare le ragioni che ha la Cina per mantenere uno stretto controllo sullo Xinjiang, le conseguenze delle sue politiche stanno diventando più spiccate. Negli ultimi anni è cresciuto il sentimento anti-cinese nell’Asia Centrale, nonostante i tentativi dei governi locali di ridimensionarlo e assicurarsi continui investimenti economici cinesi. Sebbene proseguano a lottare tra loro, molti Paesi e comunità turche si uniscono spesso nello sdegno per il trattamento degli uiguri. Ne sarà invece cruciale una percezione positiva tra le popolazioni turche dell’Asia Centrale affinché la Cina realizzi il suo progetto della Nuova via della seta.

Il raggio d’azione cinese negli Stati dell’Asia Centrale è stato ulteriormente complicato dalla Turchia. Per via delle proprie radici, è stata la sostenitrice primaria del panturchismo e nel 1992 ha ospitato il primo summit dei capi degli Stati di lingue turche. La Turchia ha assunto un atteggiamento intransigente con la Cina sulla questione degli uiguri, arrivando a varie contestazioni diplomatiche negli ultimi dieci anni. L’organizzazione di una maggiore opposizione internazionale potrebbe galvanizzare il panturchismo fino a farne un’ideologia percorribile, capeggiata dalla Turchia.

Finora la Cina è riuscita a evitare una generale condanna dal mondo mussulmano. Pechino ha fatto attenzione a enfatizzare il proprio trattamento di favore verso la popolazione musulmana hui, che vive nello Xinjiang e in altre regioni cinesi. Le relazioni positive della Cina con i maggiori Paesi mussulmani (Arabia Saudita, Iran, Pakistan, Egitto e Indonesia) dimostrano che gli sforzi hanno avuto un minimo successo e hanno evitato contraccolpi da queste nazioni a causa del trattamento degli uiguri. Ma anche questi Paesi devono fare attenzione a non sminuire tale questione per paura di incentivare le forze estremiste islamiche. Il salafismo radicale è diventato sempre più diffuso tra gli uiguri e altre popolazioni cinesi mussulmane nello Xinjiang; ciò è dimostrato dal supporto popolare per il Partito Islamico del Turkestan (in precedenza conosciuto come Movimento islamico del Turkestan Orientale). Se gli uiguri ritengono di non avere alleati mussulmani internazionali, l’attrattiva dell’estremismo continuerà ad aumentare.

Mentre la sicurezza interna della Cina è di fondamentale importanza, il Pcc rimane anche sensibile alla percezione internazionale delle sue politiche nello Xinjiang. Infatti, le politiche repressive potrebbero essere utili a instillare un’identità più forte e resistente nella popolazione uigura. Lo sviluppo economico dello Xinjiang previsto dal Pcc non sarà sufficiente a erodere in modo significativo le loro credenze secolari e l’appartenenza culturale. I precedenti storici hanno dimostrato che le nazioni estere si approfitteranno dell’instabilità di questa regione per favorire i propri interessi.

Questo articolo è stato prodotto da Globetrotter.

Traduzione dall’inglese di Mariasole Cailotto. Revisione di Flavia Negozio.

 


John P. Ruehl is an Australian-American journalist living in Washington, D.C. He is a contributing editor to Strategic Policy and a contributor to several other foreign affairs publications. He is currently finishing a book on Russia to be published in 2022.

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