La Pace è un’avventura. Colgo l’espressione dal titolo di una recente pubblicazione di Bruna Bianchi, già docente di Storia delle donne all’Università «Ca’ Foscari» di Venezia. Avventurosa è la percezione di una pace non priva di contraddizioni nei secoli. Sulla sua interpretazione sono stati spesi fiumi di inchiostro e di parole ai tavoli dei trattati, dove in suo nome si spartivano territori ed esistenze umane.

La parola «Pace» è comunemente intesa come “assenza di conflitti”, a partire dagli ambienti familiari; è l’aspirazione a una quiete senza ansie, è il leopardiano «e il naufragar m’è dolce in questo mare»; è la parola più frequentemente impressa in lingua italiana e latina su tombe e monumenti funebri, presso i quali ogni essere umano ha raggiunto la fine delle angosce, delle lotte, delle amarezze, delle travolgenti gioie della vita. Una pace passiva può consistere, dunque, sia nel trionfo dell’egoismo e dell’inerzia che, al contrario, nella esaltazione dell’altruismo e della generosità nel caso di una rinuncia pacifica all’autoreferenzialità. 

Pace è talvolta una generica proclamazione del nulla. Pensiamo agli iridati tessuti di borse e valigie, alle bandiere arcobaleno pendenti dalle finestre di case e balconi al tempo della guerra in Iraq (2002-2003) con al centro la scritta PACE, lasciate pian piano sbiadire prima della decisione individuale/collettiva di rimuoverle. Cosa intendevano coloro che le avevano appese? Chi pensava al mito di Iride? Chi al ponte variopinto tra Dio e l’umanità? Pace significava essere uniti nel dire NO ad una guerra lontana, ad indicare (ma non tutti consapevolmente) da che parte si stava; soprattutto ad auspicare per se stessi e i propri familiari una vita “sicura”, come se lo stendardo della pace fungesse da amuleto e potesse servire a tenere lontani gli appetiti violenti e le aggressioni alla propria abitazione.

Ma “un mondo di pace” significa anche un mondo in cui tutti/e abbiano cibo e lavoro in un ambito di giustizia sociale; a questo tendono i gruppi di volontari, a casa nostra e nel mondo, uomini e donne, ragazzi e ragazze che impegnano la propria vita nell’educazione dei bambini, nell’assistenza agli anziani e, in questi anni recenti, nell’accoglienza dei migranti; ma anche volontari e volontarie che si scontrano su terreni di guerra mettendo a rischio la propria vita per un sogno. Il sogno di un mondo di pace. Sono costoro una netta minoranza. La stragrande maggioranza della popolazione, a partire dai più giovani, intreccia oggi la pace con l’emergenza climatica e il rispetto per l’ambiente, battaglie ideali che affascinano come sull’orlo di un precipizio ma che non trovano riscontro in una quotidianità fatta di abitudini consolidate che mettono a repentaglio una pace vagheggiata, sì, ma contrastata quotidianamente a partire dalle politiche di governi protesi alla conservazione del potere in perfetta assonanza con le aspettative dei propri cittadini (che peraltro aspirano solo a un maggiore benessere, incuranti – essi e i governanti – delle conseguenze capaci di mettere a forte rischio la sostenibilità del pianeta, in primis l’inquinamento).

Qui sta LA GRANDE CONTRADDIZIONE. I sistemi adottati dagli stati nel mondo globalizzato restano gli stessi di sempre. «Si vis pacem para bellum» («Se vuoi la pace prepara la guerra»), si diceva a Roma alla vigilia della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. L’uso delle armi, la cui vendita è oggi moltiplicata al parossismo, serve a tenersi sempre pronti a proseguire nella direzione del possesso dei beni e dello sfruttamento delle popolazioni, ciò che ha contribuito allo sviluppo delle nostre società nella direzione che oggi i sostenitori della green economy contestano, pur non essendo in grado di opporre le necessarie rinunce a livello individuale. Un esempio lampante è l’incendio delle foreste dell’Amazzonia per consentire la prosecuzione della direzione mondiale intrapresa dai poteri forti. Troppo flebili sono le voci nel mondo dei gruppi che si oppongono.

 

La Pace è stata storicamente il prodotto delle guerre. La famosa Pax augustea ne è la rappresentazione. Le “orrende” armi tacciono quando sulle migliaia di morti, sui viventi che hanno perso le proprie case – i luoghi cari passati in mano nemica -, sulle leggi dettate dalla parte vittoriosa, si stende la pace, una “pace subìta” dai vinti, che reca in sé il germe della ribellione, una “pace proprietà esclusiva dei vincitori, pronti a gestirla con proprie modalità. Così è stato sempre.

Come superare la contraddizione lacerante tra una pace intesa come “serenità individuale” e l’astrattezza del concetto nel momento di passaggio al piano della “pace bene comune”, ovunque proclamata ma lungi dall’essere praticata?

Alcune delibere ONU ci vengono in aiuto, a partire dalla celebre risoluzione 1325 del 2000: «Donne, Pace, Sicurezza», epigona di varie altre risoluzioni concernenti i «Diritti delle Donne e della Pace». Qui la Pace è finalmente intesa nel suo autentico connotato. Il testo della risoluzione ci conduce subito su un terreno concreto: la risoluzione riguarda il ruolo delle donne nei conflitti armati: a) prevenzione e soluzione del conflitto; b) consolidamento della pace e partecipazione paritetica, in particolare nei ruoli decisionali in materia di prevenzione e soluzione dei conflitti.

Le azioni che la 1325 attribuisce alle competenze degli stati devono essere attuate dai rispettivi governi. Le associazioni internazionali di donne – e tra queste in primo piano la WILPF di antica data – lamentavano, a cinque anni dalla risoluzione, l’assenza di interventi da parte dei rispettivi governi, tra gli altri la non paritetica presenza dei generi nelle istituzioni. Ma l’aspetto più interessante della 1325 riguarda la “costruzione” della pace. Al di là di una vaga idea di pace si dispone la messa in atto di interventi atti a tutelare e a proteggere le parti più a rischio delle popolazioni vittime dei conflitti armati. Ha inizio qui l’avventura della pace intesa come percorso post-bellum, nella convinzione che «la comprensione degli effetti dei conflitti armati sulle donne e le ragazze, i meccanismi istituzionali efficaci per garantire la loro protezione e piena partecipazione nel processo di pace possano contribuire considerabilmente al mantenimento e alla promozione della pace e della sicurezza internazionali».

Il cammino si articola in tre tappe: la prevenzione, la gestione e la soluzione dei conflitti. In tutti e tre i livelli viene ribadita la necessità della rappresentanza femminile nelle fasi di adozione delle decisioni.

La prevenzione si innesta sulla soluzione di un precedente conflitto al fine di evitare nuove guerre. La soluzione prevede negoziazioni degli accordi di pace adottati in una prospettiva di genere, nel rispetto dei diritti umani e politici delle donne e della loro possibile attività in iniziative di pace durante il reinsediamento. Tutte le parti coinvolte in un conflitto armato – recita la 1325 – devono adottare misure specifiche per proteggere donne e ragazze da violenze di genere, stupri e altre forme di abusi sessuali.

La 1325 ha ormai quasi vent’anni ma i suoi dettami sono ancora ben lungi dal garantire il rispetto in ambito nazionale e internazionale dei diritti umani! Eppure, la Pace non può che fondarsi su questi presupposti. Essa deve liberarsi dai proclami universalistici non in grado di sventare appetiti e violenze che minaccino “il bene comune”. Questo “bene comune” bisogna poi pensare a come rappresentarlo. A tale proposito ci viene in soccorso l’Agenda ONU 2015-2030 «Per lo sviluppo sostenibile», dove il significato del termine «Pace» fa i conti con i linguaggi contemporanei: «Promuovere società pacifiche e inclusive per uno sviluppo sostenibile, garantire a tutti l’accesso alla giustizia e creare istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli». Da questa risoluzione prende le mosse la recente proposta di un seminario dal titolo «Cultura della Pace in Sicilia», che fonda il suo progetto su un’educazione interculturale e sul pluralismo religioso.

L’obiettivo è la formazione di una generazione in grado di “gestire la pace”, senza tabù, in un clima di laicità in cui le diversità non siano da respingere; le armi convenzionali e nucleari siano il nemico da distruggere; la green economy non sia un finto stratagemma; la parola «Pace», infine, non significhi nascondere la testa sotto la sabbia o sventolare vessilli di facciata ma rappresenti la fucina nella quale forgiare gli strumenti per una reale, pacifica convivenza a partire dai territori in cui si vive.

Antonia Sani 

NOTA BIOGRAFICA

ANTONIA BARALDI SANI, nata a Ferrara nel 1936. È stata docente di materie letterarie nella scuola secondaria di secondo grado. Vive a Roma dove ha svolto una costante attività nei movimenti di base, nei comitati di quartiere degli anni ‘70, e dove è stata eletta nelle istituzioni municipali e provinciali scolastiche. Ha inoltre ricoperto gli incarichi di coordinatrice dell’Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica e di presidente di WILPF-Italia (Womens International League for Peace and Freedom). Scrive per varie testate giornalistiche on line.