Il tema della cittadinanza onoraria dei Comuni italiani è spesso controverso: lo abbiamo scoperto, ultimamente, a proposito dei dibattiti sul suo conferimento a figure note come Liliana Segre o Patrick Zaki. Chiedono, pretestuosamente, i contrari: “Cosa ha fatto la tale persona per la nostra città?”
Ma a Milano, il 27 maggio, sulla proposta di attribuire la cittadinanza onoraria a Julian Assange, è successo qualcosa di diverso e particolarmente grave.
La domanda non è stata: “Cosa ha fatto per la nostra città?”. La risposta, peraltro, sarebbe stata davvero semplice: “Ha difeso la libertà di stampa nel mondo, quindi anche quella dei giornalisti italiani e dunque pure quella dei giornalisti di Milano e il conseguente diritto, pure dei cittadini milanesi, di ricevere informazioni”.
La domanda è invece stata: “Dobbiamo premiare chi ha rivelato segreti di Stato, conferendogli la cittadinanza onoraria e battendoci contro la sua estradizione negli Usa?”
Il dibattito all’interno del Consiglio Comunale ha dunque preso una china pericolosa.
Si è messo in dubbio, e alla fine quel dubbio ai voti ha prevalso, che informazioni di interesse pubblico relative a crimini di guerra possano (direi, debbano) essere rese note. Si è messo in dubbio che una persona che quelle informazioni le ha rese pubbliche vada protetta dall’estradizione e dal conseguente rischio di detenzione equivalente a tortura, processo iniquo e possibile condanna fino a 175 anni di carcere.
Tutto questo quando potrebbero mancare pochi giorni alla decisione della Ministra dell’Interno britannica Priti Patel sul futuro di Assange e della libertà d’informazione nel mondo. Anche in Italia e pure a Milano. Una brutta pagina, davvero.