Una piccola storia del nazionalismo ucraino, per comprendere lo sviluppo della questione nazionale e di come essa ha attraversato due guerre mondiali, un genocidio, l’oppressione sovietica, la decomunistizzazione e, infine, la guerra con la Russia.
La Galizia laboratorio della nazione ucraina
L’Ucraina ottocentesca era divisa tra l’impero asburgico e quello russo, ma se nel primo il nazionalismo ucraino venne persino incoraggiato in funzione anti-polacca, nel secondo si assisté alla repressione: furono così vietate le pubblicazioni in lingua ucraina e le associazioni culturali indipendentiste – tra cui la Confraternita di Cirillo e Metodio, nella quale militava Taras Ševčenko, poeta e padre della letteratura ucraina. Questo impedì la “nazionalizzazione” dei contadini che rimasero sostanzialmente estranei al nazionalismo – sia ucraino, sia russo – i quali si riconoscevano piuttosto nell’appartenenza a un comune gruppo sociale.
Come ricorda Simone Attilio Bellezza nel suo Il destino dell’Ucraina, il futuro dell’Europa, nella Galizia austriaca il sentimento nazionale ucraino era assai più diffuso anche nella popolazione grazie all’azione dei preti uniati cattolici. La chiesa uniate, sorta all’indomani dell’Unione di Brest (1596), riportò il clero ucraino sotto l’obbedienza del Papa pur garantendo il rito ortodosso. I preti uniati quindi si formavano in Occidente, entrando in contatto con le nuove idee nazionaliste e diffondendole in patria. Leopoli divenne così il centro della rinascita nazionale ucraina. Non a caso, nel capoluogo galiziano operò Mychajl Hruševs’kyj (1866-1934) storico e docente alla locale università, principale promotore dell’idea nazionale ucraina. Trasferitosi a Kiev dopo il 1905, sarà l’artefice della prima indipendenza nazionale.
La prima guerra mondiale
La Prima guerra mondiale condusse alla disgregazione degli imperi russo e austro-ungarico, aprendo la strada alla costituzione di uno stato ucraino. Nel 1917, mentre a Pietrogrado i bolscevichi facevano la rivoluzione, il parlamento ucraino – formatosi dopo la Rivoluzione di Febbraio, dominato dal movimento nazionale ucraino, di ispirazione socialista e guidato proprio da Hruševs’kyj – dichiarò l’indipendenza della Repubblica Popolare Ucraina (9 novembre 1917).
I bolscevichi locali, mobilitati da Lenin, diffusi soprattutto nell’est del paese si mobilitarono per affondare la neonata repubblica. È interessante notare come la forte presenza russa nelle regioni orientali si legasse alla nascente industrializzazione e, quindi, all’emigrazione di lavoratori dalla Russia in regioni sostanzialmente contadine e fino a quel momento poco popolate. Ancora nel 1917 la città di Donec’k, allora nota come Juzovka, sorta attorno agli impianti dell’industriale gallese Hughes, contava appena 70mila abitanti mentre Kiev ne contava 430mila.
Dopo aver preso il potere, Lenin siglò la pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918) che sancì l’uscita della Russia bolscevica dalla guerra. L’Ucraina venne allora occupata dai tedeschi che, con la scusa di difendere l’indipendenza nazionale, miravano al controllo economico del paese. La successiva sconfitta tedesca, gettò l’Ucraina nella guerra civile che vide i nazionalisti di Petljura opporsi ai bolscevichi, ai bianchi di Denikin e Wrangler, agli anarchici di Machno. Determinante fu il ruolo dei contadini i quali, estranei al movimento nazionale, finirono per appoggiare i bolscevichi attratti dalle promesse della “Nuova politica economica” (NEP) di Lenin che concedeva loro ampia autonomia (gettando le basi per l’ascesa di un ceto di contadini proprietari delle terre, i kulaki).
A sostegno dei bolscevichi si schierarono anche gli ebrei, colpiti dalle persecuzioni e dai pogrom di Petljura e di Machno, le cui bande intendevano punire gli ebrei per il loro appoggio ai comunisti, rompendo così una lunga convivenza tra ebrei e ucraini. Alla fine, l’Ucraina rientrò nell’orbita di Mosca mentre la Galizia venne assegnata alla Polonia.
Tra le due guerre
Accanto alla NEP, Lenin varò una politica di indigenizzazione – la korenizacija – che favorì lo sviluppo nazionale delle diverse repubbliche sovietiche. Fu così che si costituì un sistema scolastico ucraino che alfabetizzò in quella lingua le masse contadine, pubblicando dizionari e grammatiche, e dando vita a quella peculiare situazione linguistica che, fino al febbraio 2022, caratterizzava ancora le regioni orientali del paese, in cui le città sono a maggioranza russofona ma nelle campagne si parla ucraino.
La politica di indigenizzazione terminò con l’avvento di Stalin il quale impose la “dekulakizzazione” e la collettivizzazione forzata delle terre (1928). Al contempo si procedette con la russificazione forzata dell’Unione Sovietica e la persecuzione delle culture nazionali (Bellezza, 2022). Gli ucraini resistettero a questa doppia pressione, economica e politica, e pagarono il prezzo più alto. Mentre l’Armata Rossa circondava le città e presidiava le campagne, impedendo qualsiasi fuga, i funzionari sovietici avviarono requisizioni totali di derrate alimentari causando la morte per fame di circa 5 milioni di persone in meno di un anno. I contadini ucraini, ascesi finalmente a protagonisti del movimento nazionale ucraino, venivano così eliminati fisicamente e, con loro, anche gli esponenti della élite culturale, ammazzati con l’accusa di “nazionalismo borghese”.
La memoria di quell’ecatombe, chiamata Holodomor, è diventata il perno della memoria collettiva della nuova Ucraina indipendente dal 1991 a oggi. L’Holodomor rappresenta per gli ucraini un tentato genocidio che li assurge a “popolo vittima”. Questo ha spinto la storia ucraina verso direzioni nuove – come ricorda lo storico Andrea Graziosi – fino cioè al rifiuto della politica di potenza e prepotenza. “I popoli vittima – sottolinea Graziosi – hanno nella sofferenza la radice della propria identità e sono più portati a resistere. Anche oggi. Agli occhi degli ucraini la guerra in corso è qualcosa di già visto, un tentativo di “de-ucrainizzazione” che ebbe nell’l’Holodomor un precedente, ed è per questo inaccettabile, tanto da mobilitare l’intero popolo in una resistenza che diventa lotta per la sopravvivenza come nazione”.
La Seconda guerra mondiale
Giorgio Cella, nel suo Storia e geopolitica della crisi ucraina, ci ricorda che quando i nazisti entrarono in Ucraina, all’indomani dell’Operazione Barbarossa (1941), la popolazione “accolse inizialmente in modo positivo la presenza tedesca nella speranza che ponesse fine a quella russo-sovietica”. La memoria dell’Holodomor, la morte per fame, la russificazione forzata, avevano lasciato un segno profondo nella società ucraina. “I tedeschi vennero dunque considerati come liberatori” in modo non dissimile da quanto avvenuto nel Baltico, dove l’oppressione sovietica fu altrettanto dura.
Durante l’occupazione nazista il paese fu però diviso. La Transcarpazia fu annessa all’Ungheria mentre la Transnistria, fino a Odessa, fu data alla Romania. La Galizia fu compresa nel Governatorato generale che amministrava i territori polacchi non annessi al Reich, mentre il resto del paese su assoggettato a un Reichskommissariat agli ordini di Rosenberg che trasformò la popolazione in manodopera a buon mercato, Untermenschen (subumani) asserviti alla razza dominante. Il malcontento si diffuse rapidamente tanto che l’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), di ispirazione anti-sovietica, dal 1944 cominciò a operare anche contro i nazisti.
La Resistenza ucraina
La Resistenza ucraina si sviluppò in momenti diversi, sostanzialmente lungo tre direttrici e relativi movimenti. Il primo, dal punto di vista cronologico, fu l’UNDO (Unione nazional-democratica ucraina) che operò nella Galizia polacca tra le due guerre, ispirata a valori democratici non riuscì a portare avanti la causa nazionale ucraina attraverso metodi pacifici. Fu così che crebbe d’importanza l’OUN, fondata a Vienna nel 1929, fece fuori i nemici dell’UNDO con una serie di attentati finché non si divise in due fazioni, l’OUN – B, guidato da Stepan Bandera, fautore di un’alleanza con la Germania nazista; e l’OUN-M guidato da Andrej Mel’nik, più vicino all’Italia fascista. Bandera, che i nazisti liberarono dalle carceri dove l’avevano rinchiuso i polacchi, condusse i suoi reparti alla conquista di Leopoli dove proclamò l’indipendenza ucraina e la fedeltà a Hitler il quale, però, non gradì rinchiudendolo a Sachsenhausen.
Fu così che si sviluppò l‘UPA, forte soprattutto in Galizia, vero movimento partigiano che godeva del supporto popolare, lottando contro i nazisti, i comunisti e anche contro i partigiani polacchi dell’Armia Krajowa, che lottavano per la liberazione della Polonia – di cui la Galizia era parte fino al 1939. L’UPA raccoglieva anarchici, socialisti, nazionalisti e operò, per un certo periodo, con l’OUN-B raccogliendone l’eredità. L’UPA, dal 1943, combatté anche i nazisti i quali, nutriti di teorie antislave, brutalizzarono il paese e ne deportarono la popolazione causando la reazione dei partigiani ucraini. Per queste ragioni – spiega ancora Giorgio Cella – “è difficile bollare tout-court l’UPA di filonazismo” malgrado le pensati connivenze e le responsabilità nella persecuzione degli ebrei nel periodo 1941-1943 – periodo in cui, però, Bandera marciva nella carceri di Hitler. Tuttavia, il retaggio ideologico dell’OUN-UPA influenza ancora la politica ucraina.
Gli anni Sessanta
Nel pieno del periodo sovietico si sviluppò una generazione di nazionalisti ucraini assai peculiare che raggiunse il suo apogeo negli anni Sessanta, ed è per questo nota con l’appellativo di sistdesjatnyky (“sessantini”), che – come ricorda ancora Bellezza nel suo preziosissimo volumetto: “provenivano dalle campagne ucrainofone delle regioni orientali e […] trasferitisi in città per studiare, avevano incontrato un ambiente prevalentemente russofono” avviando “una riflessione sulla politica sovietica delle nazionalità” rivendicando l’uso della lingua ucraina e il diritto di studiarla. Epicentro di questo fenomeno, che non fu mai di massa, fu la città di Donec’k – oggi considerata un caposaldo del filorussismo ucraino. Una prova ulteriore di quanto certe schematizzazioni siano fallaci.
Gli anni Ottanta
Negli anni Ottanta, le riforme gorbačëviane di perestrojka e glasnost’ hanno consentito una maggiore libertà di studio, confronto politico e opinione, aprendo la via al recupero dei diversi retaggi nazionali tra cui quello ucraino. Il Movimento nazionale ucraino, Ruch, avanzò allora richieste di separazione da Mosca organizzando scioperi operai soprattutto nell’est del paese, dove i minatori assistevano impotenti allo sfacelo economico sovietico. Lo sfruttamento coloniale delle risorse ucraine e l’impoverimento generale saldarono insieme – in un unica spinta nazionale – intellettuali di lingua ucraina e operai di lingua russa, dimostrando una volta di più il carattere non-etnico del nazionalismo ucraino. Qui un approfondimento su questo peculiare movimento politico.
L’Ucraina indipendente
Una volta ottenuta l’indipendenza, la classe politica ucraina decise di dare la cittadinanza a tutti i residenti nel paese, anche russofoni e russi etnici. Una scelta – come ricorda Andrea Graziosi – opposta a quella dei paesi baltici e, in generale, figlia di un’idea nazionale che non faceva perno sull’etnicità. “C’era chi si sentiva ucraino ma parlava russo – ricorda Graziosi – dove il russo diventa una sorta di lingua veicolare, come l’inglese da noi”.
La de-etnicizzazione della lingua dal 1991 in poi è un dato importante per capire lo sviluppo sociale e politico del paese. A questo si aggiunga la molteplicità di confessioni religiose. Proprio in quegli anni si assiste infatti al riemergere della Chiesa Uniate – fino ad allora oppressa – e alla nascita di una chiesa ortodossa nazionale ucraina, che si affiancava alla chiesa ortodossa russa. La mancanza di unità linguistica e religiosa ha impedito la costruzione di uno stato-nazione tradizionale, fondato sull’omogeneità culturale. Da qui lo sviluppo di un “nazionalismo civico”, non etnico, inclusivo e plurale.
Politiche etniche
Gli ultimi vent’anni di storia ucraina, segnati da due rivoluzioni e una guerra, hanno visto lo sviluppo di politiche etnocentriche tese a dividere il paese. Il presidente Viktor Juščenko – eletto sull’onda della Rivoluzione arancione – si impegnò senza successo a portare l’Ucraina verso occidente. Nel farlo, cercò di accattivarsi le simpatie dei nazionalisti conferendo l’onorificenza di “Eroe dell’Ucraina” a Stepan Bandera.
Il suo successore, Viktor Janukovyč, oligarca del Donbass vicino al Cremlino, decise di innalzare il russo a lingua ufficiale laddove fosse parlato da più del 10% della popolazione. Una mossa che fu interpretata da una parte dell’opinione pubblica come un ossequio alla Russia. La questione nazionale e linguistica fu in realtà uno strumento per polarizzare e dividere il paese, mentre il presidente andava costruendo un regime sempre più autoritario, appoggiato dal Cremlino, che trovò argine solo nella Rivoluzione di Maidan del 2014.
L’elezione a presidente di Petro Poroshenko all’indomani della Rivoluzione di Maidan coincise con una svolta nazionalista. Tra le riforme più discutibili ci fu la legge sulla lingua (n° 5670-d) che toglieva alle lingue minoritarie lo status di lingua regionale limitando drasticamente il loro utilizzo in ambito pubblico. Vero obiettivo della legge era la lingua russa, ma di mezzo ci sono finite tutte. La norma, nella sua versione definitiva, consente l’uso delle lingue minoritarie accanto a quella nazionale, così come l’insegnamento nelle scuole, ma ribadisce l’ucraino come unico idioma ufficiale. Altro campo di battaglia fu la storia, con la glorificazione dei partigiani dell’OUN e dell’UPA e l’istituzione di un Ministero delle politiche dell’informazione che aveva il compito di vigilare affinché i media riportassero notizie in linea con la narrativa nazionale imposta dal governo.
A causa del conflitto scoppiato con la Russia nel 2014, si sono andate formando battaglioni ultranazionalisti o neonazisti, come Azov, Dnipro, Aidar, finanziate in larga misura da Igor Kolomojs’kyj, oligarca ebreo russofono, che certo non può condividere l’ideologia nazista ma che – come altri – ha strumentalizzato la questione nazionale per propri fini di egemonia politica. Malgrado le glorificazioni pubbliche, la memoria ufficiale, le strumentalizzazioni della storia, l’ultranazionalismo in Ucraina è un elemento residuale e lo stesso Battaglione Azov era pari, nel 2021, ad appena l’1% delle forze armate ucraine.
Un nazionalismo civico
Viceversa nella popolazione andava emergendo un “nazionalismo civico” che non faceva distinzione tra parlanti russo o ucraino, e che vede nell’appartenenza nazionale qualcosa che comprende le diverse identità culturali. L’elezione a presidente di Volodymyr Zelensky, ebreo russofono, capace di raccogliere consensi a est come a ovest del paese, dimostra una volta di più il carattere civico, e non etnico, del nazionalismo ucraino.
L’appartenenza linguistica non coincide necessariamente con l’identità etnica. Già il censimento del 2001, l’ultimo realizzato, fotografava come ben il 15% dei russofoni si definiva di “nazionalità ucraina” mentre studi più recenti pongono l’accento sulla porosità delle identità etniche in Ucraina e di come l’autodefinizione di “ucraino” o “russo” dipenda da molti fattori. La costruzione di uno stato ucraino non etnico, ma multiculturale, avviata nel 1991, è proseguita negli anni malgrado le contraddizioni.
La guerra in corso modificherà ulteriormente questi equilibri, poiché molti russofoni – a Mariupol, Odessa, Kharkiv, Slovian’sk, Dnipro – stanno sperimentando un senso di appartenenza allo stato ucraino alimentato proprio dall’aggressione russa. Solo uno sguardo più attento alla storia della questione nazionale ucraina, come all’identità etnica del paese, può consentirci di non cadere nelle trappole della propaganda, restituendo complessità a un paese che oggi tutti si affrettano a spiegare con chiavi di lettura ideologiche, semplicistiche o faziose.