La notizia è di quelle che ti fanno fare un salto sulla sedia: “Attentato alla sede della Lega: anarchico condannato a 28 anni di carcere”. Ventotto anni. La vicenda risale a quattro anni fa, quando si verificò un attentato terroristico alla sede della Lega di Fontane di Villorba, in provincia di Treviso. Un ordigno esplose non arrecando danno a nessuno. Un secondo non deflagrò. Secondo gli inquirenti il primo attentato aveva la funzione di attirare sul posto la polizia e la seconda carica esplosiva puntava invece ad avere conseguenze ben più gravi.
L’azione era sta rivendicata dalla “Federazione anarchica informale” e le indagini avevano condotto all’arresto dell’anarchico di origini spagnole Juan Antonio Sorroche Fernandez di 45 anni, attualmente incarcerato a Terni e ritenuto colpevole di “attentato a fini terroristici”, secondo la richiesta, pienamente accolta, della pubblica accusa. L’imputato dovrà pagare anche circa cinquantamila euro di risarcimento. Fin qui gli essenziali dati di cronaca.
Naturalmente quando si parla di tribunali e condanne bisognerebbe avere presenti gli incartamenti, le prove e un quadro completo dell’iter processuale. Non sappiamo in base a quali prove Sorroche sia stato condannato, ma pur in mancanza di questi prerequisiti l’abnormità della sentenza non può lasciare indifferenti.
Siamo distanti anni luce da pratiche di questo tipo: mettere a repentaglio l’incolumità altrui non è accettabile.
In questi anni le politiche razziste della Lega sono state avversate in mille modi, in decine di città, con mobilitazioni di piazza e prese di posizione provenienti da ampi settori della società italiana, ma una condanna a 28 anni di carcere è quanto mai allucinante. Soprattutto se si pensa che fatti ben più gravi proposti dalle nostre cronache – omicidi, stupri e quant’altro – si concludono con pene ben più lievi, o in certi casi con assoluzioni in certi casi sconcertanti.
Personalmente sono da sempre, in linea di principio, contro il carcere e mi trovo in piena sintonia con chi da tempo sostiene la necessità di una sua abolizione. Come spiegato da autorevoli rappresentanti di tale visione della giustizia, questa non significa impunità, ma un approccio radicalmente diverso di fronte ad una tematica che chiama in causa aspetti estremamente delicati e complessi, che non voglio qui affrontare.
Detto questo, di fronte alla sentenza della Corte d’Assise di Treviso non si può evitare di rimanere profondamente turbati e sbigottiti. Ancora una volta la giustizia italiana si muove in una logica di “due pesi e due misure”, come purtroppo accade troppo spesso.
Ci auguriamo che questa sentenza spropositata sollevi la giusta indignazione.