La propaganda in favore del nucleare somiglia, per certi versi, al fenomeno che in natura accompagna la riproduzione delle spore: quando ci sono le condizioni ambientali adatte, la spora, anche se ha giaciuto a lungo in ambienti molto asciutti, è capace di dar vita ad un nuovo individuo della stessa specie. Analogamente, quando nel nostro paese ci sono le campagne elettorali, si assiste alla riproduzione degli individui che vogliono il ritorno del nucleare: da Berlusconi – Scajola a Calenda – Salvini – Tajani, solo per citare i più schierati, ma ce ne sono altri che, nascosti nel “sottobosco” della campagna elettorale, aspettano il momento giusto per palesarsi. E’ un processo inarrestabile – in natura finisce con la scomparsa della specie – che si può solo contrastare e gli argomenti non mancano.
Quest’ultima campagna poi è condotta all’insegna di slogan come “nucleare di nuova generazione” e di “nucleare pulito” che se putacaso dovessero essere spiegati dai loro propugnatori in termini più tecnici (per non dire scientifici) assisteremmo ad un imbarazzatissimo spettacolo. La suddivisione dei reattori nucleari in “generazioni” è una definizione di comodo per indicarne, più che le caratteristiche tecniche, la loro datazione. Dalla prima generazione all’ultima infatti, i reattori hanno caratteristiche intrinseche comuni come un nocciolo, un refrigerante, un moderatore che a loro volta necessitano di essere progettati nel rispetto di criteri di sicurezza che, nel tempo, si sono -giustamente – inaspriti, facendo sì che i sistemi che sovrintendono al loro funzionamento, a parità di prestazioni in potenza, si siano complicati. Se nei primi reattori si prevedeva, ad esempio, di installare due pompe in un circuito (una di riserva all’altra) nei reattori successivi queste sono diventate tre e in qualche caso anche quattro e questa moltiplicazione non ha riguardato solo i componenti, ma anche i circuiti che in alcuni casi sono stati inventati ex novo. E’ il caso, per esempio, dei circuiti che sovrintendono al mantenimento in depressione del contenitore secondario per impedire che, in caso di incidente, ci sia rilascio di radioattività all’esterno. L’evoluzione dei reattori dunque, come del resto avviene per altre macchine, è -al tempo stesso – sia un processo di efficientamento e razionalizzazione, ma anche di complessificazione che si tende a spacciare per “novità”.
La nuova-vecchia generazione di reattori
Volendo tradurre la propaganda dei politici in termini più corretti, si deve parlare di nucleare di IV generazione, secondo il lessico ufficiale dell’IAEA, dell’Euratom e della stessa Unione Europea. In questa categoria sono compresi gli SMR (small modular reactors) e i microreattori. Se dunque Calenda, riferendosi ai reattori di nuova generazione, ha parlato di 7 centrali nucleari per complessivi 40.000 Mw, ha già preso una cantonata perché si tratterebbe di 28 reattori (4 per centrale) da 1400-1600 Mw ciascuno. Vale a dire reattori affatto nuovi, del tipo EPR francese o Westinghouse che hanno questa taglia, mentre gli SMR non superano i 300-400 Mw. Questi ultimi in realtà, dal punto di vista dello sfruttamento dell’energia nucleare, non costituiscono né una novità, né una opportunità a portata di mano: dei 72 progetti di SMR censiti dall’IAEA nello yearbook del 2020, molti sono in fase di progettazione concettuale, mentre gli altri non hanno mai superato la fase del prototipo.
Di mio posso aggiungere che una decina di questi progetti li esaminammo in Enel 40 anni fa, tanto è il tempo trascorso dalle promesse iniziali di certe innovazioni che tali sono rimaste. Se di novità si deve parlare, essa riguarda le modalità di costruzione che, come indicato dalla sigla, sono realizzate per moduli (modular), cioè parti di impianto assemblate in fabbrica e poi montate sul sito dell’impianto allo scopo di accorciare i tempi di costruzione e diminuire i costi. Ciò implica, però, che i reattori abbiano una potenza contenuta come il prototipo della NuScale, recentemente licenziato dalla NRC (Autorità di sicurezza USA), che sviluppa appena 77 Mwe per cui, nel caso di potenze più elevate come quelle richieste nella produzione di energia elettrica, viene meno il concetto di economia di scala e quindi la redditività dell’impresa.
I microreattori
Diverso è il caso dei microreattori (di cui nessuno parla, figuriamoci i politici come Salvini e Calenda), sviluppati negli USA. Si tratta di reattori a fissione che usano uranio arricchito fino al 20%; sono moderati a grafite e raffreddati ad elio in circolazione naturale (senza bisogno di pompe) con potenze variabile da 1 a 10 Mwe. Il progetto di questi microreattori (detti anche “nuclear battery”) è ispirato al concetto del “plug-and-play”, cioè si attacca la spina e si mette in funzione come un normale elettrodomestico. Sono macchine versatili perché ci si può produrre calore per il riscaldamento o acqua potabile; hanno dimensioni contenute (stanno in un normale container da trasporto), la manutenzione è a carico del fabbricante ed hanno tempi di installazione dell’ordine dei mesi.
Qui sta l’insidia di questa proposta, la quale aprirebbe orizzonti impensabili per l’energia nucleare se appena la si collocasse nello schema concettuale che molti “esperti” (ambientalisti e non) propugnano come modello di produzione elettrica distribuita sul territorio, simbolicamente rappresentata dalla “Smart grid”, cioè una rete “intelligente” che proprio in virtù di una produzione elettrica non più concentrata in grandi impianti, è in grado di regolare i flussi di energia in modo bidirezionale (dai nodi periferici al centro di una rete elettrica e viceversa). Cosa c’è di più feasible di un microreattore nucleare dal punto di vista funzionale di una smart grid? Ci si può alimentare una fabbrica di medie dimensioni, un piccolo distretto industriale, una stazione di servizio per autoveicoli elettrici, paesi singoli o consorziati che abbisognano oltre che di energia elettrica, anche di impianti di purificazione dell’acqua, e così via dicendo, fino ad un immaginifico impiego come “reattore di condominio” in grado di fornire anche acqua calda e calore per il riscaldamento.
Ma al di là di questi aspetti “accattivanti”, i problemi di fondo comuni a tutta la tecnologia nucleare non cambiano, anzi: per gli SMR sono già state elaborate da specialisti di Stanford simulazioni che proverebbero la produzione di una quantità di residui radioattivi superiori del 50% a quella prodotta dai reattori di grandi taglie. Infatti oltre all’impiego di nuovi materiali, gli SMR presentano sia un rapporto quantità di fissile/volume complessivo più alto, sia un arricchimento medio maggiore e quindi una produzione proporzionalmente maggiore di particelle radioattive (neutroni etc) che è alla base dei processi di attivazione dei materiali. Altrettanto vale per i microreattori: a parte il tema – ancora tutto da investigare – dei possibili incidenti, ciò che si aggrava e si complica è il problema delle scorie. Si aggrava perché l’estrema compattezza dei microreattori fa sì che tutto il reattore sia considerato come un unico grande rifiuto ad alta attività; si complica perché, ove mai questa tecnologia prendesse piede, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria proliferazione nucleare, soggetta ad attentati, sabotaggi ed usi impropri che porta con sé, inevitabilmente, una militarizzazione del territorio senza precedenti.
Aspetti economici
Con la guerra in Ukraina e le conseguenti sanzioni alla Russia, tutti gli aspetti riguardanti la questione energetica risultano sconvolti. Dal punto di vista economico, il rialzo del prezzo dei combustibili fossili facilita lo sviluppo delle rinnovabili (e per certi versi lo impone come scelta più sensata), ma rimette in gioco anche l’energia nucleare che, apparentemente, vede ridursi il divario sul costo di produzione del kwh rispetto ad altre fonti. Tuttavia il quadro generale resta fortemente problematico: negli USA, nonostante i lauti sovvenzionamenti predisposti dall’amministrazione Obama (rifinanziati da tutti i suoi successori), i programmi nucleari stentano a decollare anche perché le utilities, prima di abbandonare i profitti sicuri che gli vengono dalle rinnovabili e dagli impianti a gas, vogliono esser certi dei conclamati vantaggi delle nuove tecnologie nucleari.
Quanto all’Europa la situazione è a dir poco caotica: Germania e Belgio avevano dichiarato il phase out nucleare, ma il Belgio – dopo la guerra in Ukraina – ci ha ripensato e in Germania si affaccia l’ipotesi di soprassedere temporaneamente alla programmata chiusura di due degli ultimi tre impianti ancora in funzione. La Francia registra una crisi del settore senza precedenti con la metà circa dei suoi reattori fuori servizio, dovuta sia a seri problemi di corrosione sulle tubazioni degli scambiatori di calore, sia all’abbassamento della portata dei fiumi che limita pesantemente il funzionamento dei reattori, nonostante l’ASN (autorità di sicurezza nucleare) abbia consentito ad aumentare la temperatura di scarico nei fiumi dell’acqua di raffreddamento, con conseguenze sull’ecosistema fluviale tutte da valutare.
Tanto è forte la crisi del settore che Macron ha deciso la completa statalizzazione di EDF in previsione di un deficit colossale, dovuto sia a scelte tecnologiche sbagliate (il programma EPR) sia al fatto di aver imposto ad EDF di non applicare gli aumenti delle tariffe conseguenti al conflitto ukraino. Viceversa, proprio il conflitto ukraino ha accresciuto la voglia di nucleare di paesi come la Gran Bretagna e la Polonia che, incidentalmente, sono anche i più “interventisti”: Boris Johnson ha appena “regalato” altri 700 milioni di sterline al contestato progetto di Hinkley Point ed ha annunciato di voler costruire un reattore l’anno per i prossimi otto anni. In Polonia si sono moltiplicati gli accordi con Westinghouse e General Electric per costruire un numero di reattori oscillante tra 10 e 15.
Il falso mito dell’indipendenza energetica
Sicuramente i piani formulati in sede internazionale da qui al 2050 (net zero emissions) saranno rivisti: la Germania e i paesi dell’est europeo hanno già rimesso in funzione tutte le centrali a carbone e a lignite di cui dispongono per ottemperare al “dogma”dell’indipendenza energetica che sarebbe raggiunta – questo è il messaggio per l’opinione pubblica – con lo sviluppo dell’energia nucleare dato che l’Uranio si trova in aree geopolitiche stabili ed affini al punto di vista europeo-occidentale, come il Canada e l’Australia. Ai ritmi attuali di consumo però, ed immaginando che le riserve di questi due paesi (42% del totale mondiale) siano destinate a rifornire esclusivamente l’occidente, l’uranio canadese ed australiano basterebbe a far funzionare le centrali nucleari europee e del nord America per appena trenta anni. Giocoforza quindi approvvigionarsi anche da altri paesi fornitori come la Nigeria e il Kazakhstan che, secondo i canoni occidentali, non possono certo definirsi stabili.
A conti fatti dunque la tesi per cui il nucleare svincolerebbe le economie occidentali da certi fattori di rischio geopolitici non è così convincente, anche perché c’è un altro aspetto sottaciuto dell’attuale mercato dell’uranio che dovrebbe indurre a più ponderate riflessioni: quello per cui l’approvvigionamento di questa materia prima risiede nelle mani di un cartello internazionale. La produzione mondiale di uranio infatti è controllata da quelle che potremmo chiamare «le sette cugine dell’uranio»: sette compagnie che controllano l’85% della produzione mondiale di uranio e appena tre compagnie che sono in grado di fornire i relativi servizi di arricchimento, in un regime di sostanziale monopolio e dunque in grado di condizionare pesantemente i futuri scenari energetici come, del resto, avvenne tanti anni fa per opera delle sette sorelle del petrolio.
In un mondo globalizzato l’indipendenza energetica, specie per un paese come il nostro, è un whisfull thinking (un pio desiderio) che, se messo in pratica a tutti i costi, non farebbe che confermare lo stato di condizionamento in cui versa l’Europa con ripercussioni incalcolabili sulla vita dei suoi cittadini.