La recente conferenza internazionale sulla decrescita Venezia 2022 ha mostrato che nel corso degli ultimi anni, anche senza che nessuno la perseguisse esplicitamente, si è di fatto verificata una convergenza tra visioni e prospettive di una società futura che fino a poco tempo fa sembravano distanti o addirittura alternative: quelle che rispondono ai termini di decrescita, ecosocialismo, ecofemmnismo, società della cura, giustizia sociale e ambientale, conversione ecologica e forse altre.
Pur mantenendo ciascuna un focus specifico, le unisce il ripudio di qualsiasi prospettiva fondata sulla crescita (dei PIL), l’accumulazione del capitale, il produttivismo, l’estrattivismo, lo sfruttamento sia degli esseri umani che del vivente, le diseguaglianze sociali e il patriarcato. In positivo, le unisce una prospettiva fondata su decentramento e partecipazione alla gestione dei processi produttivi, dei contesti istituzionali e dei rapporti sociali e un orientamento improntato alla sobrietà nei consumi e all’arricchimento delle relazioni.
Il problema irrisolto, sia a livello teorico che pratico, è come far vivere, crescere e maturare queste visioni all’interno sia delle lotte in corso contro lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente sia delle molteplici iniziative “molecolari” di riorganizzazione della vita e dei consumi in contesti di condivisione.
A connettere questi poli è la necessità e l’urgenza di affrontare la crisi climatica e ambientale già in pieno corso e destinata ad aggravarsi. In sintesi, la conversione ecologica dell’apparato produttivo, delle relazioni sociali e degli assetti istituzionali. Una “transizione” possibile – ormai ce ne sono le prove – solo se promossa “dal basso”, cioè partecipata da una popolazione che si costituisce in comunità e non affidata solo a misure governative varate dall’”alto”, sempre tardive, parziali, discriminanti, incapaci di abbandonare il paradigma della crescita. Solo comunità del genere saranno in grado di affrontare l’adattamento alle difficili condizioni a cui la crisi climatica e ambientale costringerà le prossime generazioni, già a partire da quella di chi è giovane oggi.
La conversione ecologica ha bisogno della partecipazione convinta di un grande numero – non necessariamente la maggioranza – di cittadine e cittadini, lavoratori e lavoratrici, ma soprattutto di conoscenze ricavate dall’esperienza diretta di chi vive e lavora nei territori e nelle imprese da riconvertire. Conoscenze che possono essere raccolte solo attraverso un confronto diretto e continuo tra gli interessati.
E’ un processo molto difficile, che sembra mettere in forse posti di lavoro o abitudini acquisite senza prospettare alternative concrete, che vanno costruite in percorsi lunghi, complessi e aleatori. Per questo i punti in cui può più facilmente affermarsi la prospettiva di una conversione produttiva – indissolubilmente legata alla ricomposizione di una comunità di riferimento – sono le aziende esposte al rischio di chiusura, delocalizzazione, ridimensionamento. Lì, come sta mostrando l’esperienza esemplare della GKN di Campi Bisenzio, non esiste alternativa alla socializzazione della gestione sia della lotta che dell’impianto e a una conversione produttiva che può realizzarsi solo nel quadro di un piano di ambito almeno nazionale, ancora in gran parte da elaborare, come quello prospettato dal collettivo operaio per produzioni funzionali a una mobilità collettiva e sostenibile.
Di piani del genere c’è grande urgenza, soprattutto per la conversione energetica. Il programma NextgenerationeEU ha messo a disposizione del nostro paese 200 miliardi (tutti, sostanzialmente, a debito) che il governo italiano sta sperperando in iniziative che nulla hanno a che fare con la transizione ecologica: armi, autostrade, alta velocità, incentivi all’auto individuale, gassificatori, navi metaniere, gasdotti e nuove trivellazioni. Per non parlare di case di comunità senza personale, scuole senza insegnanti, investimenti in ITC senza formazione e quasi niente per il riassetto idrogeologico.
Con meno di quell’importo sarebbe possibile invece convertire tutto il sistema energetico nazionale alle energie rinnovabili in poco tempo (molti progetti, in attesa di autorizzazione, già ci sono) come avevano fatto, al momento della loro entrata nella Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti, convertendo in pochi mesi i loro impianti industriali alla produzione bellica: carri armati, cannoni, navi, aerei, bombe… Un processo inverso, ma altrettanto rapido, dall’industria bellica e da quella che produce beni superflui alla produzione di impianti e attrezzature per far fronte alla crisi climatica sarebbe senz’altro possibile se solo i nostri governi dessero alla crisi climatica la stessa importanza data allora (e anche oggi) alla guerra. A sentire i politici, sia nostri che del resto del mondo, sembra invece di essere atterrati su Marte. Ma le forze per imporre loro una svolta radicale – o la loro cacciata – stanno maturando tra le nuove generazioni, quelle messe in moto da Greta, quelle che sanno che a pagare i costi dell’inerzia degli attuali governi saranno loro.
Per questo un altro punto di aggregazione a partire dal quale costituire o ricostituire delle comunità è fornito dalle scuole, presenti, con diversi livelli di dotazioni, in tutto il mondo. Lì è concentrata la maggior parte delle nuove generazioni, quelle che dovranno, e in parte già vogliono, farsi carico delle indispensabili trasformazioni necessarie per far fronte alla crisi climatica e ambientale. Ma le scuole, nella misura in cui si riesce ad aprirle ai territori, e alle loro comunità in fieri, sono anche nel bene come nel male potenziali incubatrici della società futura e sua prefigurazione. Per questo la lotta per trasformare le scuole in ambienti che servano veramente le nuove come le vecchie generazioni è una questione che ci riguarda tutti.