Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce
che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e la Sicilia,
crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri
che gli scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.
Antonio Gramsci, La questione meridionale
Il 17 settembre scorso, al laboratorio Malaspina di Palermo, centro sociale occupato da studenti universitari vicini al movimento indipendentista Trinacria, è stata presentata una nuova edizione del volume storico di Giacomo Pagano Sette giorni d’insurrezione a Palermo. Avvenimenti del 1866. Cause, fatti, rimedi, critica e narrazione, curato dalla casa editrice I Buoni Cugini Editori e introdotto da un saggio di Santo Lombino. Si tratta di uno scritto uscito nel 1867, a ridosso della rivolta di Palermo, il cui anniversario cade in questi giorni e che alcuni storici avevano definito L’ultimo Risorgimento, in un volume del 2018 edito dall’Istituto Poligrafico Europeo, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno di Bolognetta svoltosi nel 2016, a 150 anni dagli eventi rievocati.
È questa una pagina ben poco nota della storia siciliana, che però può far luce sulle contraddizioni socio-economiche e politiche della nostra isola e sulla complessità irrisolta della questione meridionale, purtroppo ancora attuale. Perché tornarci, dunque? Perché, come avvertono i ragazzi del Malaspina, nella storia possiamo ritrovare, nel nostro passato, nella nostra lingua, la forza per lottare contro le ingiustizie del presente.
Santo Lombino cita, a questo proposito, la chiusa di un canto popolare anonimo dedicato alla rivolta nel palermitano e raccolto da Salomone Marino:
Cca c’è spiranza, populi,
la burrasca è vicinu.
Purtroppo mancano le testimonianze dirette dei protagonisti; le uniche fonti coeve, Ciotti e Maggiorana, oltre ai documenti delle forze dell’ordine e agli atti dei processi, denigrano la partecipazione popolare liquidandola per le sue collusioni mafiose, per altro non infrequenti nei moti risorgimentali del Sud.
Diversa la voce di Pagano, il cui sguardo si vuole distaccato e obiettivo e la cui narrazione propone anche rimedi alla malattia sociale (Massari, 1863): scuole, infrastrutture, riforma agraria per una piccola proprietà contadina, indipendenza della Magistratura dall’esecutivo.
Da molti si è detto (Del Carria, per tutti) che fu una rivoluzione improvvisa e acefala. Sciascia, nella sua prefazione ad una precedente edizione del libro di Pagano, sottolinea come i suoi ispiratori e capi ideali fossero l’uno assassinato dal ’63, il generale garibaldino Giovanni Corrao, e l’altro in galera, Giuseppe Badia, entrambi repubblicani radicali. Cionondimeno, i loro scritti circolavano e il lavorìo di preparazione dei loro compagni tessè un’organizzazione capace di creare un comitato rivoluzionario, sostituito per altro dopo qualche giorno da uno più moderato comprendente anche il principe di Linguaglossa e il marchese di Torrearsa. Non acefala perciò la rivolta, quanto piuttosto ibrida, data la commistione di patrioti, filoborbonici, clero e briganti, che spiegheremo.
Le sommosse (non certo le prime di quegli anni immediatamente post-unitari, che avevano visto maturare ed esplodere la delusione per il tradimento dei decreti di Garibaldi del giugno’60) iniziarono nell’hinterland: Monreale, la più grande diocesi italiana, dove la Chiesa possedeva immensi feudi, Misilmeri, Campofelice, Mezzojuso, Bolognetta (allora Ogliastro). Nel capoluogo i rivoltosi tennero la città dalla notte fra il 15 e il 16 settembre fino al 22, per sette giorni e mezzo, appunto, di qui il nome tratto da un diffusissimo gioco di carte. Pagano ce ne dà un resoconto puntuale, quasi un diario quotidiano, come poi farà nel 1970, poco prima del suo a tutt’oggi impunito rapimento, Mauro De Mauro.
Il contesto, come ricorda al laboratorio Elio Di Piazza, è quello del degrado economico del Sud negli anni dell’unificazione, che già tanti episodi di ribellione aveva provocato, dai tentativi di insurrezione repubblicana di Bentivegna nel ’53 e ancora nel ’56 ai fatti di Bronte del ’60, fino alla costituzione di una Società operaia voluta da Saverio Friscia.
Da massimo cantiere navale del Mediterraneo (Cancila), Palermo s’era ridotta a costruire solo 5 piccole imbarcazioni, una volta rilevata l’impresa dai Rubattino di Genova, e l’industria serica di Messina era crollata; le zolfare avrebbero ancora per poco resistito, travolte negli anni ’80 dalla concorrenza nord-americana. Dopo la sconfitta del ’66, e soprattutto dopo la repressione crispina dei Fasci tra il 1893 e il ’95, sarebbe iniziata – per non arrestarsi fino ad oggi – l’emorragia dell’emigrazione giovanile, irreparabile perdita di energie fisiche e intellettuali alla quale Santo Lombino ha dedicato a Villafrati il Museo delle Spartenze, dal titolo dell’autobiografia di Tommaso Bordonaro.
La causa della rivolta fu, dunque, disfizziamentu di populi (sdegno popolare), come ebbe a dire un testimone citato negli atti di polizia, contro la leva obbligatoria di cinque anni, contro la disoccupazione, contro la mancata distribuzione di terre promessa da Garibaldi e contro il ripristino in alcuni Municipi del dazio sul macinato.
L’occasione, nell’anno delle sconfitte di Lissa e Custoza contro l’Austria, dell’assunzione del debito pubblico del Veneto e del corso forzoso della lira, fu la legge sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico. Essa, per un verso, mettendo all’asta a grandi lotti le terre confiscate al clero per fare cassa subito, ne impediva l’acquisto ai contadini, sprecando un’occasione per la pur necessaria riforma agraria e favorendo invece grossa borghesia e nobili, e, per altro verso, chiudendo monasteri e conventi (52 solo a Palermo) gettava sul lastrico braccianti e artigiani che vi lavoravano, a migliaia se si considera l’indotto. Inoltre le maestranze, corporazioni di mestiere, erano anch’esse legate alle confraternite religiose, ormai chiuse.
Ecco che si creò allora quella strana complicità, cui accennavamo prima, fra repubblicani attenti alla questione sociale, clero filoborbonico depauperato, basso clero democratico già simpatizzante per i garibaldini (come il frate di Monreale incontrato da G.C. Abba), lealisti e nobili illuminati e bande di briganti. Composita e perfino incongrua la partecipazione, ma democratica e repubblicana la direzione.
Quali dunque le ragioni del fallimento? Quando il generale Raffaele Cadorna, inviato dal governo Ricasoli, entra a Palermo (sindaco un giovanissimo marchese di Rudinì), la cannoneggia e decreta lo stato d’assedio (per la terza e non ultima volta dall’Unità), istituendo 3 tribunali militari con poteri retroattivi, la rivolta è già finita. Palermo, con il suo entroterra, è rimasta isolata: Crispi ha ormai abbracciato la monarchia e avviato la sua scalata al potere; Mazzini continua a privilegiare l’unità politica a discapito delle riforme economiche che metterebbero a repentaglio l’adesione dell’ala liberal-liberista al suo progetto, da cui si allontana invece la sinistra garibaldina. Del resto la frattura interna al movimento risorgimentale si era già manifestata nel ’60 e mai più ricomposta: cavouriani per il plebiscito e l’annessione e repubblicani per l’assemblea costituente. Sono dunque – allora come oggi, verrebbe anche qui fatto di dire – le frammentazioni interne all’opposizione la ragione della disfatta.
Anche la questione della presenza mafiosa è complessa: se, da un lato, briganti erano presenti tra i sovversivi, è pur vero che la lotta per la terra sfidava i gabelloti, braccio armato dei baroni nei feudi. Certo, quella che Lombino chiama la democratizzazione della violenza durante il Risorgimento finirà col favorire più tardi la formazione delle cosche. Va pure detto, però, che le forze dell’ordine con la mafia erano colluse e la sfruttavano per infiltrazioni durante le sommosse. Celebre l’episodio dei Pugnalatori, che nel 1862 avevano seminato il panico nel capoluogo ferendo a caso a colpi di coltello 13 passanti e giustificando così retate di polizia e carabinieri, nonché l’arresto di Corrao, Badia, Bonafede, poi rilasciati (Francesco Benigno, La mala setta, Einaudi). E più in là Sonnino e Franchetti, nella loro inchiesta del 1876, denunceranno l’appartenenza mafiosa di parecchie Guardie a Cavallo.
Ma a Palermo nel 1866 non c’era consapevolezza antimafiosa diffusa, anche se alcuni giovani partecipanti alla rivolta avrebbero poi dato vita ai Fasci Siciliani che, con i Patti di Corleone del 1893, rappresentano il primo vero movimento contadino antimafia.
A Palermo nel ’66, invero, la borghesia restò a guardare, mentre vincevano le elezioni i cosiddetti regionisti (autonomisti e indipendentisti); si creò invece un legame fra proletariato urbano e rurale che si cementerà proprio nei Fasci.
I ribelli non assaltarono case private, salvo quella del sindaco Di Rudinì e dell’amico di Crispi, Paladini, ma presero di mira tribunali e archivi polizieschi per bruciarvi documenti. Ciò nonostante, sulla stampa nazionale, l’isola, celebrata come fulgido esempio di patriottismo all’epoca dei Mille, fu stigmatizzata adesso come covo di banditi antistatali.
Tra città e provincia furono coinvolte più di 30.000 persone. Ci furono almeno 1.000 morti fra i ribelli e 2-300 fra le truppe, ma i numeri sono incerti, anche a causa di un’epidemia di colera scatenata dai soldati piemontesi.
L’epilogo vide 2.500 arresti fra bottegai e artigiani, 80 fucilati senza processo e gettati in una fossa comune (S. Lombino), ma solo 259 processati, tra cui 13 donne, e 10 condanne a morte comminate, di cui 2 sole eseguite, le altre commutate in carcere duro (G. Oddo).
Di Rudinì divenne prefetto, potenziando così la sua carriera politica; Saverio Friscia chiese una Commissione Parlamentare d’Inchiesta; lo stato d’assedio fu tolto nel dicembre.
Il movimento di resistenza popolare non si sarebbe fermato e avrebbe visto nei Fasci il nuovo protagonismo di moltissime donne. Ma questa è un’altra storia, o forse la stessa…