Si è svolto a Palermo, il 19 gennaio presso il circolo Arci Tavola Tonda, un incontro tra operatori interculturali e giovani migranti, a conclusione del progetto “Integra” al quale hanno partecipato diverse realtà: il Cesie, (centro di studi e iniziative europeo ispirato alla maieutica reciproca di Danilo Dolci), la Cledu (clinica legale per i diritti umani), il Send (centro di orientamento al lavoro per MSNA e neomaggiorenni), il CIPIA (scuola per giovani e adulti immigrati), Stravox (associazione di giovani migranti), Refugees Welcome (organizzazione no profit di accompagnamento e sostegno), operatori del SAI (centro di accoglienza istituzionale per minori stranieri).
Si è creata, cioè, una rete virtuosa tra volontari e pubbliche istituzioni che ha permesso di realizzare laboratori interculturali con ragazzi del Ciad, del Gambia, ma anche italiani, i quali hanno condiviso esperienze e vissuti e confrontato e approfondito i propri contesti culturali di appartenenza, lingue religioni costumi. Hanno inoltre incontrato l’associazione Moltivolti, che gestisce un ristorante etnico in città, punto di riferimento e ritrovo per tanti dibattiti, feste e iniziative musicali, e visitato la libreria popolare Booq, facilitati da traduttori in arabo e in francese.
Nel corso del pomeriggio di lavoro, si sono esaminate soprattutto le criticità e avanzate proposte di miglioramento delle attività. La prima necessità, evidente fin dal titolo della tavola rotonda, è apparsa quella di andare oltre gli acronimi legali che pretendono di definire i neoarrivati e i luoghi che li ospitano, specie dopo il giro di vite di restrizioni all’accoglienza imposto dal decreto Cutro, e a fronte del continuo mutamento delle persone che arrivano, dei loro progetti e dei loro desideri.
Accompagnare all’autonomia non significa insegnare l’inserimento nelle maglie di un sistema che impedisce le aspirazioni, sottolinea Roberta del Cesie. Le fa eco Safà Neji, del centro diaconale valdese del quartiere Noce, docente universitaria di lingua e letteratura araba: «Non mi piace il termine inclusione, non l’accetto, perché indica un movimento unidirezionale, quando invece l’integrazione è reciproca, è l’esito di un lavoro di rete. Occorre mettersi in ascolto dell’altro, senza semplificare mai i bisogni e i desideri dei ragazzi, ma scavando e aiutando a scavarsi dentro, allargando la rete, coinvolgendo volti nuovi». L’integrazione riguarda, dunque, anche il mediatore, che smette di guardare al suo modello culturale come all’unico possibile e avvia un processo di decolonizzazione della mente, apprezzando il patrimonio linguistico e valoriale dei giovani.
Ousman Drammeh, mediatore culturale impegnato nell’orientamento al lavoro, oltre che studente universitario (e talvolta nostro collaboratore), e Issa Fadoul Bichara, facilitatore di Civilhood, ci tengono a rimarcare la differenza tra interprete, che si limita a tradurre, e mediatore culturale, che si impegna a rintracciare affinità e specificità dei diversi contesti di appartenenza, delle due società di partenza e di arrivo, e che è tenuto alla riservatezza e all’approfondimento.
Ousman, in particolare, evidenzia la speciale attenzione che occorre nell’orientamento al lavoro: la stesura del curriculum e la candidatura, che spesso sono le sole richieste avanzate all’operatore, sono in realtà un punto di arrivo. I ragazzi devono chiedersi, innanzi tutto: che cosa voglio fare? Perché lo voglio fare? Che competenze ho per farlo? Quasi tutti i maschi vorrebbero entrare nella ristorazione, per imitazione di un amico, per il buon guadagno o per altro e trascurano tante diverse possibilità. Così, le ragazze africane pensano solo alle pulizie, anche se hanno svolto percorsi formativi interessanti ed espletato progetti. Occorre indirizzarli verso un tirocinio formativo, affinché diventino più consapevoli di se stessi.
Ma intervenire coi giovani, specie se minori, esige principalmente tempestività, come avverte Alice Argento, avvocata della Cledu e attivista di Refugees Welcome. Un minore, diversamente da un richiedente asilo o da un rifugiato, riceve una più accurata accoglienza: può studiare, essere ospitato in una comunità fino a 21 anni, elaborare un suo progetto di vita. Ma dev’essere guidato e chi lo segue non deve stancarsi di rivolgersi alle autorità, come il tribunale, reiterando le richieste senza stancarsi, perché le risposte, se non sollecitate, non arrivano…
Infine si è affrontato il problema più difficile, quello della padronanza linguistica, che crea equivoci nella comunicazione, impedisce l’accesso al lavoro o il suo mantenimento, rende impossibile orientarsi nella già farraginosa giungla della burocrazia. Da tutti si è sottolineato come i ragazzi debbano, ove possibile, uscire dalla casa ospitante, incontrarsi con coetanei, frequentare le scuole medie italiane invece del Cipia, sia per la varietà dell’offerta formativa sia per stringere amicizie nuove e apprendere la lingua. Le docenti di lingua italiana per stranieri hanno raccomandato, come fece Mario Lodi negli anni Sessanta per i figli degli emigrati meridionali al Lingotto di Torino, di partire dalla oralità, dal racconto di episodi della vita precedente la partenza, ricordi canzoni giochi, per un apprezzamento reciproco del patrimonio di ciascuno.
Costituisce una buona prassi questo progetto “Integra”, che tornerà a ripetersi, una buona prassi che è anche una buona notizia in questi tempi bui. Come buone prassi sono pure i progetti di mentoring di Refugees Welcome : “Fianco a fianco” con l’UNICEF che ha contato 144 incontri e “Community Matching” con l’UNHCR (Alto Commissariato ONU per i rifugiati) che ne ha raggiunti 350.
E anche se c’è tanto da fare e il tempo non basta mai, a fine incontro ci lasciamo rincuorati dalla vicinanza e determinati a proseguire.
“Ripensiamo l’autonomia senza acronimi” un incontro a Palermo tra operatori interculturali e giovani neoarrivati
-